Scrivere versi ai tempi di Occupy

by Editore | 17 Maggio 2012 6:51

Loading

In che consiste la performance del testo poetico? In quali forme la poesia contemporanea può ritrovare una funzione critica? Cosa assimila il poeta al critico e al traduttore? Sono questi i quesiti sollevati dal simposio dei «Poets&Critics» che si è svolto in questa calda primavera francese all’Università  di Paris Est Créteil, a cura di Olivier Brossard e Vincent Broqua. 
Nel guardare poundianamente alla critica come luogo d’invenzione e d’incontro, la discussione si è soffermata sugli esperimenti poligrafi dei L=A=N=G=U=A=G=E poets che – lontani dalla linea Eliot-Stevens-Ashbery – caricano i loro versi di dichiarazioni secondarie, accogliendo tutti i dialetti non integrabili e plausibilmente intraducibili di cui si compone la lingua anglo-americana. Nel loro radicale progetto dialogico rientra a pieno titolo la traduzione, intesa come pratica poetica di secondo grado, che Charles Bernstein (traduttore, tra l’altro, di Edmond Jabés) concepisce come trascrizione omofonica (mouvance) e momento critico di selezione prima ancora che variazione sul testo. Nel panorama della poesia americana, proiettata, già  con Emerson, oltre la codificazione dei generi letterari, a far da guida ai poeti-critici è proprio il poeta di Manhattan che, nell’adottare invariabilmente il saggio e la poesia e la loro acrostica fusione nelle soluzioni parodiche dell’intervista autobiografica e della critica in versi, concepisce una pagina dove il saggio si dispone naturalmente accanto a una lirica sperimentale, recando a ogni capoverso una diversa lettera dell’alfabeto. 
Queste prose in forma di poesia, che chiedono di essere lette anche al contrario, sottolineano il carattere ermeneutico di un esercizio di scrittura che rovescia patafisicamente ogni affermazione autoritaria, ingaggiando il lettore in uno sforzo di decifrazione che lo scuote dalla posizione di ascolto passivo. Bernstein è tra i pochi poeti-critici ad aver dato alla sua dimensione bifronte una solida veste istituzionale, avviando, alla State University di Buffalo, un corso di laurea in Poetica: strappando provocatoriamente i poeti dalla loro marginalità , ha attribuito loro il ruolo di professori, in una rara sintesi di teoria e prassi letteraria che ha attirato in quell’ateneo, sotto gli occhi divertiti del vecchio Leslie Fiedler, voci influenti come Susan Howe e Raymond Federman. Questa scuola anomala finanziata dallo stato di New York, e lontana dai templi dell’istruzione privata con cui viene erroneamente identificato l’intero sistema universitario statunitense, ha formato una molteplicità  di talenti versatili, nel segno di un modernismo radicale consolidato da un prezioso archivio digitale di cui Bernstein ha trasferito le tracce acustiche in rete (PennSound). 
L’inesauribile energia con cui l’autore dà  accessibilità  telematica a quanto di più effimero e ineffabile si possa concepire in campo poetico, ha contribuito ad affermare un’idea di reading non inteso, nel senso di Robert Creeley e dei poeti beat, come mera improvvisazione sul testo scritto, ma come scansione ritmica che, nell’esecuzione a voce alta, accentua l’«aurale» costrutto uditivo più che l’«orale» autenticità  della voce poetica. Nel trascendere metrica, fonetica e prosodia tradizionali, la trascrizione acustica del verso trasforma il testo poetico in una partitura aperta a sempre nuove articolazioni, fino ad accogliere lo slang e gli slogan di voci collettive non assimilate di cui l’esecuzione dal vivo restituisce ampiezza, timbro e ritmo. 
In tempi postmoderni come i nostri, in cui – come ha notato Broqua – Marina Abramovic reinterpreta le performance di Gina Pane quasi a recuperare un gesto unico che solo la memoria degli astanti può rievocare, Bernstein valorizza la vocazione «centrifuga» e democratica di una poesia che, nella sua performance, esprime tutta la sua «aVERSIone», in una linea verbo-acustica (sound poetry) mai stanca di farsi sentire e che, nella ricostruzione genealogica fornita dall’autore in Attack of the Difficult Poems. Essays and Inventions (Chicago U.P., 2011), parte dalle sperimentazioni del primo modernismo per giungere ai mantra collettivi di Occupy Wall Street. 
Il nuovo numero del «Verri», che si apre con l’autoironico Oratorio dell’abiura di Bernstein, posto in funzione di commiato nell’edizione originale, sottolinea la vocazione sociale di una poesia sonora intesa come sostanza acustica mai pacificata che, come gli assemblaggi neo-Dada di Jackson Mac Low (ora in mostra alla galleria parigina 1900-2000), esibisce la materia linguistica di cui si compone. 
Nel farsi precipitato sonoro di un’interrogazione permanente inscritta nel dna delle avanguardie storiche, la forza espressionista di questo «nudo formalismo» trova un’ideale ascendenza nell’uso della sprezzatura di William Carlos Williams e di Gertrude Stein, i quali individuarono nella cruda referenzialità  del linguaggio ordinario e nei toni denotativi dell’enunciazione un modo per liberarsi delle pose romantiche dell’io lirico e per accogliere le inflessioni vernacolari della lingua afro-americana che Stein mimò per prima in Melanchta. Ben lontana dal risolversi in giochi di parole fini a se stessi, la poesia in performance lascia la pagina per diventare «azione», fedele a un’agenda progressista che per Mac Low e John Berryman nasce al fianco di riviste della sinistra intellettuale come «Politics» di Dwight Macdonald, e che oggi trova un naturale sviluppo nella prospettiva panamericana, pata-queer o enig(ay)matica (dall’originale, pata-que(e)rical) con cui la nuova poesia americana s’insinua nell’alveo di un inglese volutamente imperfetto sulla traccia di tutte le lingue d’immigrazione cresciute in terra d’America. 
Nella struttura ritmica di un inglese che, nella sua varietà  americana, ospita i segni spuri di una radicale non-appartenenza, rientrano i raffinati sincretismi dell’italo-americana Jennifer Scappettone, del poeta russo-ebraico Eugene Ostachevsky e della portoricana Giannina Braschi, che, muovendosi da stranieri per le strade di Manhattan, riattualizzano la lezione di Louis Zukofsky, coltissimo interprete di un Cavalcanti già  rimodulato da Ezra Pound, e rivisitato in versione Yiddish, ovvero nell’Yinglish che si parla a Brooklyn. Per sua natura non assimilazionista come è invece l’inglese «global» e standardizzato diffuso su scala planetaria quale sterile strumento di contrattazione aziendale, la lingua anglo-americana incamera i diversi accenti delle comunità  dissonanti a cui Bernstein guarda nei termini democratici di una linguistica miscegenation. 
Nel segno di questa catacresi, il numero 48 del «Verri» propone l’esemplare Exit 43 di Scappettone per la cura di Milly Graffi la quale, da indimenticata traduttrice dell’Alice di Lewis Carroll, ne asseconda l’accidentato percorso che oggi, come pure accade nella Campania di Tommaso Ottonieri assediata dalle ecomafie (www.mediafire.com/?b0fjjxhneg2) e nella Biùtiful Cauntri di Esmeralda Calabria, porta i suoi interrogativi nella devastazione di aree periurbane sommerse dai rifiuti tossici. La rivista ospita, accanto ai versi di Calvin Bedient, di Paul Vangelisti e di Lorine Niedeker, anche lo storico saggio in cui Ron Silliman individua i rapporti di continuità  tra la generazione L=A=N=G=U=A=G=E e quella strutturalista di Tel Quel che l’ha preceduta, quasi a riannodare un filo mai interrotto tra le diverse stagioni di una sperimentazione poetica che oggi esprime in rete tutta la sua vocazione multimediale. 
E non è un caso che, nelle sue conVERSazioni parigine, Bernstein abbia trovato il suo avatar e portavoce ideale nel giovane performer ugro-giapponese Ganji Amino, il quale, sui versi del maestro, ha intessuto un rap declamato a voce altissima e con la scansione quasi sillabica degli occupanti di Wall Street, intrecciando il manifesto L=A=N=G=U=A=G=E con i protocolli di discussione OWS, in un ideale passaggio di consegne tra padri e figli, nel segno di una tradizione antiautoritaria che si può cogliere in video anche nei vaudeville di Felix Bernstein (figlio di Charles, nella vita), sullo sfondo delle fantasmagorie grafiche di Susan Bee, o nel sito di «The Nation» da cui esorta, assieme al padre: «Sciopera/ perché la rivoluzione avviene due volte nella vita». Attraverso questa varietà  di commutazioni e permutazioni, maestri e discepoli, genitori e figli si scambiano i ruoli, in un atto di resistenza all’erosione dei rapporti creativi tra generazioni cannibalizzate da uno stesso azzeramento dei diritti.

Post Views: 166

Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2012/05/scrivere-versi-ai-tempi-di-occupy/