Salari e redditi fermi da 20 anni l’Italia si scopre più povera

by Editore | 23 Maggio 2012 7:37

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ROMA – L’Italia è quasi ferma, dalla crisi del 1992 a quella in corso, ha «vivacchiato», è cresciuta poco e nulla, si è trascinata dietro questioni antiche e mai risolte: il Sud, l’incapacità  a valorizzare le donne, la resistenza a lasciar spazio ai giovani. Siamo un Paese che non si muove, dove è diventato più difficile, per i figli, fare un passo avanti rispetto ai genitori e dove scuola e merito non rappresentano un trampolino di lancio. Rispetto a venti anni fa c’è qualche laureato in più, ma ci sono anche parecchi bambini in meno. Non siamo morti: c’è chi ha ancora voglia di combattere e partire con la sua impresa alla conquista dell’export, ma la competitività  è dura da raggiungere e la prestigiosa, vecchia manifattura ogni anno perde pezzi. Siamo proprio nel mezzo di quello che l’Istat, fin dalla prima riga del suo rapporto sul 2012, definisce «un difficile passaggio», ma il Paese – assicura il presidente Giovannini – «ha compreso la gravità  della situazione» e «l’accelerazione decisionale che ne ha fatto seguito».
MENO CRESCITA, MENO REDDITI
Si sa che va male per tutti, ma per l’Italia va peggio: negli ultimi venti anni siamo rimasti quasi fermi. Dal 1992 al 2011 il tasso medio di crescita annua è stato dello 0,9 per cento mentre la Francia arriva all’1,6 e la Spagna, al di là  del quadro attuale, è avanzata a colpi del 2,5. Tradotto in reddito reale e in potere d’acquisto delle famiglie ciò ha prodotto un balzo all’indietro. «Il 2011 è stato il quarto anno consecutivo in diminuzione – ha chiarito Giovannini – stiamo tornando ai livelli di dieci anni fa». Il reddito pro capite è inferiore del 4 per cento rispetto al 1992, del 7 rispetto al 2007. In quattro anni si sono persi 1.300 euro a testa e la propensione al risparmio è crollata dal 12,6 all’8,8 per cento.
L’ASCENSORE ROTTO 
L’Istat la definisce «bassa fluidità  sociale»: come nasci, così resti. Se tuo padre è notaio sarai notaio anche tu, se fa i turni in fonderia, probabilmente li farai anche. Solo l’8,5 di chi nasce in una famiglia operaia ce la fa a diventare dirigente e dalla scuola non arriva più la spinta. «Anche l’operaio vuole il figlio dottore» recitava «Contessa», colonna sonora del ‘68: dopo oltre quarant’anni, informa l’Istat, la classe sociale dei genitori continua ad influenzare i percorsi formativi dei figli. Fra i ragazzi degli anni 80 solo il 23 per cento dei nati nelle classi meno agiate è arrivato all’Università , contro il 61,9 di quelle agiate; nelle scuole superiori gli abbandoni, nel primo caso, arrivano al 30 per cento, nel secondo si fermano al 6,7.
POVERO SUD
La mai risolta questione meridionale affossa i redditi del Sud. Lì sono povere 23 famiglie su 100, contro le 4,9 del Nord. Sono le regioni meridionali quelle che offrono minori opportunità  di lavoro e che scontano svantaggi nella dotazione di servizi sociali (dagli asili nido all’assistenza per gli anziani). Ed è li che i Comuni spendono meno in welfare: la media nazionale è di 116 euro procapite, ma va dai 295 della provincia autonoma di Trento ai 26 della Calabria, un divario che si va allargando. L’economia sommersa pesa come un macigno: vale 275 miliardi, il 17 per cento del Pil, rispetto al 2000 risulta contenuta, «ma con la crisi si è verosimilmente riallargata».
GIOVENTU’ PRECARIA
L’Italia non è un paese per giovani, lo ha dimostrato nei giorni scorsi lo studio della Coldiretti sull’avanzata età  della classe dirigente, lo certifica l’Istat. Il risultato è che i figli restano tali più a lungo: fra i 25 e i 34 anni quattro su dieci vivono ancora in famiglia. «Bamboccioni» per forza: il 45 per cento vive con i genitori solo perché non può permettersi una vita autonoma e il lavoro precario avanza tagliando le ali. Dal 1993 al 2011 i dipendenti a termine sono cresciuti del 48,4 per cento. Nel 2011 l’incidenza del lavoro temporaneo sul complesso del lavoro subordinato è stata pari al 13,4 per cento, il valore più elevato dal 1993, ma ha supera il 35 per cento (quasi il doppio del 1993) fra i 18-29enni.
LA CRISI DELLE DONNE
La discriminazione femminile con la crisi è peggiorata. Quando lavorano le donne, guadagnano di meno (e la disparità  cresce con l’aumentare del reddito), ma trovare un posto è già  un’impresa: il 33,7 per cento delle italiane tra i 25 e i 54 anni non percepisce redditi (contro il 19,8 per cento nella media Ue). Studiano di più, ma «guai» a fare figli: il lavoro per le madri – rispetto ai padri – è 9 volte inferiore nel Nord, 10 nel Centro e 14 nel Mezzogiorno. Nelle coppie in cui lei non lavora (il 30 per cento sul totale) oltre il 47 per cento delle donne non ha accesso al conto corrente.
CHI CE LA FA
Eppure non tutto è nero: l’export italiano cresce (più 11,4 per cento nel 2011), anche se la competitività  è in sofferenza. Negli ultimi dieci anni, sottolinea l’Istat «l’Italia ha rafforzato i processi d’internazionalizzazione ma esistono ancora spazi di miglioramento».

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