QUEL MASCHIO FRAGILE CHE NON ACCETTA LIMITI

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La violenza sulle donne è una forma insopportabile di violenza perché distrugge la parola come condizione fondamentale del rapporto tra i sessi. Notiamo una cosa: gli stupri, le sevizie, i femminicidi, i maltrattamenti di ogni genere che molte donne subiscono, aboliscono la legge della parola, si consumano nel silenzio acefalo e brutale della spinta della pulsione o nell’umiliazione dell’insulto e dell’aggressione verbale. La legge della parola come legge che unisce gli umani in un riconoscimento reciproco è infranta. 
Questa legge non è scritta, non appare sui libri di diritto, non è una norma giuridica. Ma questa legge è il comandamento etico di ogni Civiltà . Essa afferma che l’umano non può godere di tutto, non può sapere tutto, non può avere tutto, non può essere tutto. Afferma che ciò che costituisce l’umano è l’esperienza del limite. E che quando questo limite viene valicato c’è distruzione, odio, rabbia, dissipazione, annientamento di sé e dell’altro. Per questo la condizione che rende possibile l’amore – come forma pienamente umana del legame – è – come teorizzava Winnicott – la capacità  di restare soli, di accettare il proprio limite. Quando un uomo anziché interrogarsi sul fallimento della sua vita amorosa, anziché elaborare il lutto per ciò che ha perduto, anziché misurarsi con la propria solitudine, perseguita, colpisce, minaccia o ammazza la donna che l’ha abbandonato, mostra che per lui il legame non era affatto fondato sulla solitudine reciproca, ma agiva solo come una protezione fobica rispetto alla solitudine. Sappiamo che molti giovani che commettono il reato di stupro provengono da famiglie dove al posto della legge della parola funziona una sorta di legge del clan, una simbiosi tra i suoi membri che identifica l’esterno come luogo di minaccia. 
Il passaggio all’atto violento che conclude tragicamente una relazione mostra che quell’unione non era fatta da due solitudini ma si fondava sul rifiuto angosciato della solitudine, sul rifiuto rabbioso nei confronti del limite, non sulla legge della parola ma sulla sua negazione. Rivendicare un diritto di proprietà  assoluto – di vita e di morte – sul proprio partner non è mai una manifestazione dell’amore ma, come ricordava recentemente Adriano Sofri su queste stesse pagine, la sua profanazione. Qui il narcisismo estremo si mescola con un profondo sentimento depressivo: non sopporto di non essere più tutto per te e dunque ti uccido perché non voglio riconoscere che in realtà  non sono niente senza di te. Uccidersi dopo aver ucciso tutti: il mondo finisce con la mia vita (narcisismo), ma solo perché senza la tua io non sono più niente (depressione).
Nulla come la violenza sessuale calpesta odiosamente la legge della parola. Perché la sessualità  umana dovrebbe essere passione erotica per l’incontro con l’Altro, mentre riducendosi a pura sopraffazione disumanizza il corpo della donna riducendolo a puro strumento di godimento. Il consenso dell’incontro viene rotto da un vandalismo osceno. Non bisogna però limitarsi a condannare la bestialità  di questa violenza. C’è qui qualcosa di scabroso che tocca il fantasma sessuale maschile come tale. Una donna per un uomo non è solo l’incarnazione del limite, ma è anche l’incarnazione di tutto ciò che non si può mai disciplinare, sottomettere, possedere integralmente di cui la gelosia, più o meno patologica, può offrire, negli uomini, solo una vaga percezione, come accade al tormentato protagonista di un classico romanzo di Moravia come La noia: nulla, nessuna somma di denaro, nessuna cosa, nessun oggetto, può trattenere ciò che per principio è sfuggente – simile al tempo nella fisica contemporanea, teorizzava Marcel Proust a proposito della sua Albertine. 
Per questa ragione Lacan distingueva i modi del godimento sessuale maschile e femminile. Mentre il primo è centrato sull’avere, sulla misura, sul controllo, sul principio di prestazione, sull’appropriazione dell’oggetto, sulla sua moltiplicazione seriale, sull'”idiozia del fallo”, quello femminile appare senza misura, irriducibile ad un organo, molteplice, invisibile, infinito, non sottomesso all’ingombro fallico. In questo senso il godimento femminile sarebbe radicalmente “etero”; sarebbe cioè un godimento che sfugge ai miraggi della padronanza fallica. Tra di loro gli uomini esorcizzano l’incontro con questo godimento “infinito” dichiarandole “tutte puttane”. E’ un fatto, ma è soprattutto una difesa per proteggersi da ciò che non intendono e non riescono a governare. Lo dicevano a loro modo anche Adorno e Horkheimer quando in Dialettica dell’illuminismo assimilavano la donna all’ebreo: figure che non si possono ordinare secondo la legge fallica di una identità  rigida perché non hanno confini, perché sono sempre altre da se stesse, radicalmente, davvero eteros. 
E’ di fronte alla vertigine di un godimento che non conosce padroni che scatta la violenza maschile come tentativo folle e patologico di colonizzare un territorio che non ha confini, di ribadire su di esso una falsa padronanza. E’ chiaro per lo psicoanalista che questa violenza – anche quando viene esercitata da uomini potenti – non esprime solo l’arroganza dei forti nei confronti dei deboli, ma è generato da una angoscia profonda, da un vero e proprio terrore verso ciò che non si può governare, verso quel limite insuperabile che sempre una donna rappresenta per un uomo. Questa è del resto la bellezza e la gioia dell’amore, quando c’è. Non il rispecchiamento della propria potenza attraverso l’altro. Per un uomo amare una donna è davvero un’impresa contro la sua natura fallica, è poter amare l’etero, l’Altro come totalmente Altro, è poter amare la legge della parola.


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