“Danni per oltre due miliardi cancellata l’industria emiliana” e il capannone si sposta in tenda

by Editore | 31 Maggio 2012 9:54

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MIRANDOLA – Fa impressione il silenzio, in via di Mezzo, che era una strada di campagna ed è diventata la spina dorsale di una zona industriale invidiata in mezzo mondo. Si sente soltanto l’allarme di una fabbrica che non smette di suonare dalla mattina di martedì. «Siamo venuti qui per spegnerlo, ma non possiamo entrare in azienda». Carlo e Alberto Barbi costruiscono qui, nella ditta «Barbi Galileo», i loro autobus Granturismo. Ce ne sono sei nel piazzale, due finiti e lucidissimi, gli altri quattro da terminare. «Per fortuna li avevamo portati fuori dopo la prima scossa della domenica». All’ombra di un pioppo, Carlo Barbi, 63 anni, può raccontare un pezzo della storia di Mirandola e di questa Bassa che è conosciuta più all’estero che in Italia. «Posso dire – racconta – che molti della mia generazione si sono dati da fare. Mauro Mantovani, il titolare della Aries, che è morto perché è stato l’ultimo a uscire dalla fabbrica, era un mio compagno di scuola». 
Nella strada deserta – ci sono i capannoni spezzati dell’Api, della Cls costruzioni, della Coop gas, della RB, della Picotronik… – passa una pattuglia di vigili urbani con un altoparlante. L’annuncio fa venire in mente gli anni del coprifuoco. «Per il momento è vietato entrare in tutte le aziende e negli edifici industriali. Vi preghiamo di mantenere la calma e di collaborare con le autorità ». Il sindaco Maino Benatti ha firmato l’ordinanza che impedisce ai titolari delle aziende, oltre naturalmente agli operai, di entrare in fabbrica. Ci sono state troppe vittime fra i lavoratori, e oltre a Mauro Mantovani un altro imprenditore, Enea Grilli, è stato schiacciato dal cemento della sua azienda. C’era fretta di tornare al lavoro, si sperava che quella del 20 maggio fosse l’ultima scossa. Così non è stato. E ora sulla strage degli operai la procura di Modena ha aperto un’inchiesta per omicidio colposo.
Mario Veronesi, 80 anni, è lo Steve Jobs del distretto del biomedicale. Ottocento – mille milioni di fatturato, 100 imprese e oltre 4.000 addetti. «Dobbiamo riprenderci in fretta – dice – ma usando la ragione. Intanto dobbiamo stimare i danni per capire se una ripresa sia possibile. E dobbiamo sapere quali siano le cose da cambiare. Se si alza il livello di pericolo sismico, ad esempio, come faremo a intervenire nelle fabbriche? Le fondamenta delle aziende non si cambiano». Era un farmacista, Mario Veronesi, che dopo un viaggio negli Stati Uniti chiamò dei professori dell’istituto tecnico e alcuni allievi e si mise a produrre «set da infusioni», le flebo, e poi tutto ciò che serve per la dialisi. Adesso, nel polo mirandolese, si costruiscono quelli che sono chiamati i «cuori artificiali» e gran parte delle macchine e degli utensili usati nella sale operatorie.
Anche il fondatore del biomedicale ora è lontano da Mirandola. «La mia casa è solida ma è nel centro storico, zona rossa, e così sono stato cacciato fuori. Certo, ragionare e fare presto non è facile, ma dobbiamo riuscirci». Ha costruito aziende comprate poi dalle multinazionali, ne ha costruito altre che sono all’avanguardia nel mondo. «Io dico sempre ai miei colleghi e anche agli operai: fate in modo che le multinazionali abbiano interesse a restare qui. C’è il pericolo, dopo questo disastro, che alcune di loro decidano di migrare altrove. Solo facendo presto e bene impediremo questa fuga. Il biomedicale è un settore delicato. Con le aziende bloccate, non riusciamo a servire i nostri clienti, ospedali in testa. E rischiamo così che questi enti, che non possono restare senza la nostra “merce”, si rivolgano ad altri produttori». 
«Rischiamo – dice il sindaco Maino Benatti – di tornare agli anni ‘50». «Rischiamo davvero – racconta Mario Veronesi – di buttare via un lavoro di 50 anni. Non ce lo possiamo permettere, i giovani hanno diritto a un futuro. Quando ho cominciato io, qui c’erano un grande mercato bestiame, un salumificio, uno zuccherificio, una fabbrica di scarpe e una di conserva di pomodoro, e l’officina delle corriere, la Barbi, che era qui in centro». Carlo Barbi è ancora nel grande piazzale della sua fabbrica. «Mi sembra impossibile non potere entrare dentro, controllare, fare qualcosa, ma gli ordini si rispettano». Racconta la storia del nonno Galileo che 105 anni fa aprì l’officina per costruire birocci per i cavalli. Mostra con orgoglio i suoi pullman, che sul mercato costano dai 250.000 ai 300.000 euro. «Vede, noi alla difficoltà  siamo abituati, ma questa volta è troppo grossa. Abbiamo lavorato per 25 anni per la Volvo, che poi all’improvviso ha deciso di fare costruire i pullman in Polonia. Abbiamo dovuto valorizzare il nostro marchio, crearci una rete commerciale, trovare i clienti, e ci siamo riusciti. Ci siamo solo noi, in Italia, a costruire pullman. Vede quei telai? Servono per allestire pullman per l’esercito, avevamo avuto la commessa pochi mesi fa. Oggi i danni sono pesanti, e non sappiamo ancora se i piloni centrali hanno retto. Senza un aiuto concreto, stavolta non ce la faremo. Con la Volvo avevo 100 dipendenti, ora ne ho cinquanta. Non posso togliere lo stipendio a 50 famiglie». 
È dalle idee dei Mario Veronesi e dei Galileo Barbi che nasce la fortuna di Mirandola, 3,6 miliardi di fatturato nel settore manifatturiero. Biomedicale, alimentare e meccanico danno lavoro a 15.000 addetti. Il danno complessivo all’economia nelle zone del sisma è stimato al momento in due miliardi. Solo nel biomedicale si calcolano perdite per almeno 800 milioni. Sono crollate le ceramiche di Finale Emilia (4,2 miliardi di fatturato nell’intera provincia modenese, con 20 mila addetti), e le aziende come la Barbi fanno parte di quella metalmeccanica che nelle due province terremotate, Modena e Ferrara, supera gli 11 miliardi di fatturato. Sempre nelle due provincie, l’agricoltura produce 1,2 miliardi, l’agroindustria 6,2 miliardi. «Noi i danni non li abbiamo ancora calcolati – dice Giovanni Messori, del caseificio sociale 4 Madonne a Lesignana di Modena – ma sappiamo che sono perdute la metà  delle nostre 33.000 forme di parmigiano». La Coldiretti ha fatto ieri una prima stima e i numeri sono pesantissimi: 500 milioni di danni nella food valley dell’intera zona terremotata, Parma, Mantova e Rovigo comprese. Qui, dove si produce oltre il 10% del Pil agricolo, ci sono 600.000 forme di parmigiano e di grana padano cadute dalle «scalere». «Hanno continuato a cadere anche oggi – dice Giovanni Messori – non più a causa del terremoto ma per l’effetto domino: una scalera si appoggia all’altra e i crolli non si fermano. Oggi abbiamo dovuto chiudere il nostro caseificio a Medolla, perché è stato tolto il gas». 
L’auto dei vigili passa anche davanti alla B Braun Sharing expertise, settore biomedicale. «Noi non possiamo – dice Giuliana Gavioli, manager di questa multinazionale tedesca – restare fermi del tutto. Dopo la prima scossa siamo andati in un albergo, con i nostri uffici. E dopo tre giorni siamo rientrati in fabbrica, a pulire, tinteggiare… Dopo la scossa di martedì, stiamo montando una grande tenda nel piazzale. Speriamo che ce lo permettano. Se non manteniamo i contatti, se non assicuriamo i clienti, altre aziende negli Usa e nella stessa Germania sarebbero pronti a portarceli via. Abbiamo bisogno di aiuto, è vero. Ma soprattutto di sapere cosa dobbiamo fare, subito. E spero che lo Stato si dia da fare con lungimiranza, per fare capire alle multinazionali che ricostruire qui è nel loro interesse».

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