Prodigi mancati nel segno del disincanto
«Non tutti guariscono»: l’ultimo romanzo di Alessandro Zaccuri, Dopo il miracolo (Mondadori 2012, oggi alle 13 la presentazione al Salone del Libro) si chiude con queste parole che suonano come un contraltare al titolo del testo e alla storia narrata dallo scrittore milanese. Siamo nella provincia piacentina nel 1985 e la vicenda prende le mosse dal suicidio di un seminarista, Beniamino, dodicesimo figlio della devota famiglia dei Defanti, che si è costruita da sé a forza di lavoro e di rosari. Il gesto del ragazzo porta allo scoperto segreti e bugie, che l’ispettore Canova cerca di dissipare. Ma a mano a mano emerge un altro filo narrativo, strettamente saldato al primo dall’abilità di Zaccuri e legato a uno degli insegnanti del seminario, Don Alberto, e a due donne, Maria Sole e Miriam, che si credono miracolate. Iniziato quindi come un giallo, il romanzo diventa poi, anche grazie alla limpida scrittura dell’autore, una meditazione sul mistero che avvolge chi si sente toccato dai miracoli.
Tutti i personaggi coinvolti infatti hanno a che fare con questi segni (guarigioni inspiegabili, donne dichiarate sterili che diventano madri di dodici figli, tanti come le tribù di Israele), che Zaccuri descrive con una sfuggente ambiguità : una ragazza, per esempio, cade battendo la testa, i genitori sono disperati, la situazione sembra gravissima, il sacerdote dona l’ultima benedizione e la ragazza torna in vita. È stata la benedizione? O è una semplice questione fisiologica? L’autore lascia il lettore nel dubbio. Ogni spiegazione contiene dentro il suo inverso e la sua confutazione. E il miracolo infine può essere visto come una leggera menomazione del corpo come in Miriam, la bimba del prodigio, che rimane leggermente sciancata da una gamba (il rimando all’episodio di Giacobbe e dell’angelo è chiarissimo).
Siamo di fronte a un romanzo cattolico – un romanzo di uomini, di corpi malati, di menti disperate o dubbiose; un romanzo sulla fede e la speranza, dove tuttavia dio non c’è. Sembra essersi fatto piccolo, rintanato in qualche angolo del cosmo, e della sua presenza rimane al più nel mondo un flebile ricordo. Si rinnova così il modo di immaginare e raccontare la Provvidenza (a livello teologico Zaccuri ragiona e ri-scrive Manzoni), che non è più un intervento dall’alto in grado di appianare le cose, ma che costringe l’uomo a prendersi le proprie responsabilità . La provvidenza manzoniana diventa, nelle pagine di Dopo il miracolo, simile alla «presenza del dio in esilio» (la shekinà ), che fa dell’uomo il co-responsabile del bene e pure del male.
Il male è dunque l’orizzonte, il problema che sta dietro al testo di Zaccuri. A lungo i miracoli sono stati pensati come rimedio alla sofferenza dell’uomo. Dopo il miracolo segna uno sguardo più disilluso: anche il miracolo tarda – ecco spiegata la chiusa del romanzo – e di questo tardare è sintomo la nostalgia, che avvolge molte parti del libro. Nostalgia come struggimento per il ritorno. Ogni romanzo cattolico, e quello di Zaccuri lo è pienamente, vive una lacerazione: dio non ha mantenuto la promessa. Non è tornato una seconda volta e l’attesa, che in principio è speranza, con gli anni, duemila per i credenti, è diventata una disperazione serena, di chi attende un segno che a volte avviene e a volte no. Proprio come i miracoli raccontati nel romanzo.
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