Prima casa, esenzione in mano ai sindaci

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ROMA — Lasciare ai sindaci, a partire dal prossimo anno, la scelta di applicare l’Imu anche sulla prima casa oppure no. Era stato il sottosegretario all’Economia Vieri Ceriani a dire che in futuro l’Imposta municipale unica, la nuova Ici, potrebbe cambiare. Ed è questa l’ipotesi alla quale stanno lavorando gli esperti del ministero per verificarne la fattibilità  a partire dal 2013. L’idea, esaminata ieri in una riunione tecnica a via XX Settembre, è quella di partire dalla versione originale dell’Imu, quella scritta dal governo Berlusconi, che avrebbe dovuto riguardare solo le seconde case. Aggiungendo però la facoltà  per i Comuni di estenderla all’abitazione principale.
Se questo dovesse essere l’approdo finale, sarebbe prevedibile un calo del gettito dell’imposta rispetto a quello stimato per il 2012. E questo perché, ragionevolmente, non tutti i sindaci sarebbero disposti a tassare la casa nella quale vivono i loro cittadini-elettori. Solo per la prima casa il gettito dell’Imu previsto per il 2012 è di 3,4 miliardi. Se questa linea dovesse passare, l’anno prossimo una parte di questi soldi potrebbe non esserci più. Ancora una volta, quindi, il vero nodo è far quadrare i conti.
L’ipotesi potrebbe essere quella di girare tutto l’incasso dell’Imu ai Comuni, compresa la parte che oggi finisce allo Stato. Ma, allo stesso tempo, tagliare i trasferimenti dallo Stato ai Comuni della stessa cifra che verrebbe a mancare per la mancata tassazione della prima casa. Così per i conti dello Stato non cambierebbe nulla, mentre i sindaci avrebbero qualche motivo in più per mantenere la tassa sulla prima casa, in modo da non restare con le casse vuote. Resterebbe naturalmente in piedi il cosiddetto fondo di perequazione, che compensa gli squilibri tra Comuni ricchi e Comuni poveri. Ma la soluzione non è semplice, l’ipotesi è ancora allo studio. E andrà  approfondita ancora nelle prossime settimane, sentendo anche il parere dei diretti interessati, i sindaci.
Sindaci che nel frattempo stanno valutando come affrontare l’altra grande questione fiscale aperta, quella della riscossione. Dopo la rottura politica con Equitalia, resta il problema di che fare dal prossimo primo gennaio quando, in base a una legge, la società  pubblica che attualmente riscuote per conto della gran parte dei comuni i tributi evasi non assolverà  più questo compito. Si tratta di una vera e propria emergenza, spiega Angelo Rughetti, segretario generale dell’Anci, l’associazione dei comuni. «Equitalia restituirà  infatti ai municipi tra gli 8 e i 10 miliardi di euro di ruoli» ancora da riscuotere. E di questi un miliardo circa, riguardando ruoli vicini alla scadenza dei termini di prescrizione, potrebbe presto trasformarsi in perdite da annotare nei bilanci dei Comuni, aggiunge Rughetti. 
Di qui il piano che l’Anci sta valutando per costituire una propria società  di riscossione partecipata per il 49% da soci da selezionare attraverso una gara pubblica tra «soggetti patrimonialmente solidi che abbiano già  dimostrato di operare con efficienza nella riscossione», dice il segretario dell’Anci. Che però sottolinea: «Perché la società  possa funzionare con efficienza è necessario che il legislatore ci dia gli stessi poteri e le stesse procedure di cui dispone Equitalia, che iscrive subito a ruolo le somme da recuperare mentre noi dovremmo mandare una prima ingiunzione, una seconda e poi andare dal giudice per ottenere il decreto esecutivo. Insomma, passerebbero anni». Ovviamente, assicura Rughetti, la società  di riscossione dell’Anci non pretenderebbe un aggio del 9% come Equitalia e sarebbe più comprensiva verso i contribuenti in difficoltà . L’idea piace a gran parte dello schieramento politico, ma non manca qualche voce contraria. «Percorrere questa strada significherebbe solo dar vita a nuove nomine e a un nuovo consiglio di amministrazione — dice Alberto Fluvi, capogruppo Pd nella commissione Finanze della Camera —. Ci sono già  83 agenzie di riscossione oltre Equitalia. Basterebbe indire una gara».


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