Povere e dimenticate la sconfitta delle soldatesse stanche di guerra

by Editore | 29 Maggio 2012 7:36

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WASHINGTON – Lontana dal tuono glorioso dei reduci sulle loro Harley Davidson che hanno invaso come tutti gli anni la capitale americana nel giorno delle Rimembranze, sta in Virgina la piccola casa silenziosa delle donne dimenticate. Circondata da aiuole di fiori bianchi, rossi e blu, i colori della bandiera, ben accudite da mani femminili, la casa della speranza, come si è fatta chiamare, ospita strette strette dodici donne soldato reduci dall’Iraq e dall’Afghanistan, con i loro bambini. Sono veterane di guerra senza tetto, che la nazione, dopo tanta retorica, e nastri gialli, e adesivi, e discorsi, ha abbandonato al loro destino appena hanno smesso l’uniforme e indossato gli abiti civili. 
Sono quasi quindici mila le donne soldato sopravvissute alle guerre «per esportare la democrazia» soltanto per diventare vittime della pace, e di una democrazia indifferente, al ritorno in patria. E se la tragedia del soldato che torna a casa dalla frontiera terribile ma ben regolata della vita militare in conflitto è conosciuta da quando decine di migliaia di reduci maschi dal Vietnam si smarrirono nella vita civile, questo esercito di donne disperse a casa propria è il prodotto della grande crescita del reclutamento femminile alle armi. Il 16% delle uniformi di tutte le forze armate americana, Esercito, Aviazione, Marina, Marines, Guardia Costiera è oggi indossato da femmine e spesso in ruoli di prima linea. Le ausiliarie che parteciparono alla Seconda Guerra Mondiale furono appena il 3 per cento e furono facilmente riassorbite in un’economia in gigantesca espansione, che seppe utilizzare e riciclare in pace quei compiti di segreteria, amministrazione, intelligence, analisi, comunicazioni che avevano svolto in guerra.
Ma le guerriere “usa e getta” che le nuove forze armate utilizzano tornano in un «mondo», come si dice nel gergo degli accampamenti, che non sa bene che fare di loro. Sono spesso donne ancora giovani, tutte sotto i trent’anni, ma non abbastanza per ricominciare da capo una vita, traumatizzate da un fronte nel quale, a differenza delle guerre tradizionali, non ci sono linee di demarcazione e chiunque può essere dilaniato da una mina sotto la jeep o da un razzo piovuto dal cielo. Tre quarti di loro sono afroamericane, ragazze che avevano varcato la soglia degli uffici di reclutamento nei paesi e nei centri commerciali più modesti, per trovare un’occupazione, una paga, come tanti dei loro commilitoni maschi. «Mi ero arruolata per sfuggire alla noia e alla mancanza di futuro nel mio paese in Alabama» dice una delle donne dimenticate e accolte nella casetta in Virginia, finanziata da donazioni private e volontarie.
Il ritorno «nel mondo», spesso dopo due o tre dispiegamenti fra la polvere di Bagdad o le ombre dei monti ostili nel Kandahar è difficile per tutti, e un quarto dei senza tetto negli Usa è un reduce, ma può essere devastante per le donne. Alcune erano già  sposate, o madri «single» di bambini accuditi da parenti durante i semestri di guerra. Quelle fortunate, che rientrano tutte intere senza avere lasciato brandelli di sé all’altro capo del mondo, vivono naufragi di matrimoni, di unioni, o di solitudine che la sindrome, lo stress della battaglia accelerano spesso in forme di disturbi psichiatrici. Alcune, come annota in sordina il rapporto della Veteran Administration, hanno subito violenze sessuali. Non dal nemico. Vittime del “fuoco amico”.
Non ci sono reti di sicurezza, per fermarne la caduta. L’Amministrazione non è un’agenzia di collocamento per quei 500 mila reduci soltanto di questo decennio di velleitarie e confuse invasioni e di interventi armati a pioggia. Gli ospedali della Veteran Administration curano le ferite, i malanni fisici, ma non sanno, non possono per mancanza di soldi, curare il mal di vivere che risucchia queste donne e che presenta problemi diversi dal reducismo dei maschi.
Nascono organizzazioni private, volontariato come la rete del “Saluto Finale”, brutta espressione ma che vuole ricordare l’ultimo saluto militare prima del congedo, che finanzia case come la villetta in Virginia, alle porte di Washington.
Accoglie tremila e quattrocento veterane, su 15 mila, con i loro bambini, quasi tutte divorziate o scaricate da mariti e compagni senza nessun sostegno finanziario. Gratis per due anni, considerato un tempo ragionevole per rimettersi sulle proprie gambe e trovare un lavoro. Se hanno qualche soldo, o quale occupazioni temporanea, le ospiti pagano il 20 per cento delle spese. Ed è toccante vedere come queste soldatesse disarmate organizzino la loro vita comune con criteri ancora militari, usando il vocabolario che i sergenti istruttori gli avevano trapanato in testa. Ci sono il “servizio latrine”, naturalmente a turno, ma anche punitivo se una di loro viola le regole delle case, il “servizio rancio”, la “pattuglia bambini”, quando ci si deve occupare dei figli di chi esce per cercare lavoro, per fare la spesa (“rifornimento”) o per concedersi una “libera uscita”.
«Stiamo attraversando una rivoluzione demografica alla quale la burocrazia, costruita per maschi, non era pronta» riconosce il direttore dei servizi per reduci disabili del governo, Daniel Bertoni «e ancora non sappiamo come affrontare la disabilità  di una donna che non ha bisogno di stampelle o di protesi, ma di una casa per sé e per i suoi figli. I 60 milioni di dollari stanziati per loro sono poca cosa». Eppure, come dice Jas Booth, una donna che era capitano nell’Esercito ed è tra le attiviste e organizzatrici di “Ultimo Saluto”, non si trovano rancori, risentimenti, amarezza fra queste soldatesse dimenticate. «Sapevamo a che cosa andavamo incontro» dice Vanessa della casetta in Virginia «sia al fronte che al ritorno e abbiamo accettato di servire il nostro Paese». Un Paese che si è dimenticato di servire loro.

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