Pixel di vita colti girando in un taxi

by Editore | 31 Maggio 2012 6:54

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Il mondo attuale ha molte caratteristiche a sancire una soluzione di continuità  con quello che è successo prima, per millenni quasi allo stesso modo. Fra le tante, notevole la progressiva smaterializzazione delle esperienze, sancita in questo caso da una lingua sempre più parafrasata, astratta e lontana dalle cose, quella che ha paura a dire cieco o spazzino e si deresponsabilizza con non-vedente e operatore ecologico. Naturalmente la letteratura è testimone di tutto questo (assai passivo, è questo un altro segno di discontinuità  con il passato), perché se i libri nascono senza esperienze da parte di chi scrive è altrettanto privo di esperienze chi li legge e chi li valuta, allora il cerchio si ricompone e si può andare avanti senza avvedersi di nulla, presumendolo però. 
Il pistolotto iniziale per introdurre al libro di un esordiente, Giovanni Ubezio (Il cane che mi guardava. E altri racconti del taxista, Il Saggiatore, pp. 182, euro 13). L’autore è ovviamente un taxista, sembra da molti anni, che si appunta le vicende che gli capitano sulla via e poi, nei momenti chiave in attesa di clienti, le stende grazie a un dittafono. Storie brevi e incontri, signore e signori simpatici e no, cani aggressivi e gatti maleducati, vicende catturate nello spazio angusto della viabilità  cittadina, da ascoltatore più o meno obbligato di discorsi che sembrano non avere «né un principio né una fine e sono destinati a continuare per sempre».
Qui l’esperienza conta: si tratta di glimpses o pixel che man mano si compongono in una visione in cui il pensiero è volto all’esterno, colto a mutare nella sua interazione con esso, e al centro dell’interesse si viene a trovare proprio il rapporto tra soggettività  e oggettività  del conoscere. Uno sguardo naturalmente in movimento, intuitivo, in cui l’esterno diventa un interno e viceversa, emerso in una temporalità  incerta e impermanente della coscienza, quella che ci neghiamo quando stiamo inchiodati a vita a una scrivania. Lui vagola per Milano e dintorni allo stesso modo in cui divaga nelle considerazioni, con la tranquillità  di chi ha il cliente a portarlo e a fare il suo destino, lui deve solo andare e poi raccontare con lieve gusto comico mai compiaciuto, quindi mai ironico.
Nel contesto di cui parlavamo prima, si tratta quindi di un privilegiato, le parole che usa sono ancora cariche dello loro belle sfumature di significato, suono e forma e il pregio dell’operina è questo prima d’ogni altro. Sebbene forse appena troppo editorialmente ripulita, comunque l’atmosfera che si crea è quella di un’intimità  allargata, molto simile a quella che per millenni produceva la letteratura. Con gli anni, sembra di capire, in taxisti come Ubezio sopravviene una sorta di abbandono, lui non si stupisce di nulla e lo dichiara, lo sguardo è empatico pur restando professionale, neutrale, mentre lo affina su esseri che all’improvviso diventano interessanti, se non addirittura veri e propri personaggi. Preferirebbe godersi la vita «nell’ombra, senza dare nell’occhio e senza protagonismi», ci riesce grazie a una sorta di allenamento e una forte dose di compassione.
In tempi di annientamento del senso comune lui invece lo osserva e lo rafforza, come quando racconta l’andamento ciclotimico settimanale degli automobilisti, o la leggendaria pericolosità  di chi calza un cappello, o quelli che «si isolano completamente da tutto ciò che circonda l’abitacolo» creando «disarmonia nel delicato equilibrio viabilistico». All’improvviso si innalza, come quando vaga con un uomo e una donna misteriosi in cerca di un motel. Certe volte la potenza delle frasi è disarmante, come raccontando i gesti volanti dei clienti per assicurarsi il passaggio, «e se non siamo occupati noi taxisti ci fermiamo». La malia sta nel riportare alla mente i tassisti di una volta, quelli con le auto verdi e nere che in città  quasi erano considerati intellettuali. 
Certo non si tratta di prosastà¼cke walseriani o di Carver come propone l’entusiasta risvolto di copertina, gli manca la crudeltà  di stile di chi sta lì prima di tutto a mettere in forse che esista qualcosa di certo e inamovibile denominato il reale, eppure a Ubezio capita addirittura, più o meno inconsapevolmente, di porre un parallelo e tracciare una definizione del lavoro dello scrittore, quando dice che un taxista «pensa un percorso, poi lo cambia, poi lo modifica di nuovo, alla fine si crea una combinazione unica e personale». «Il mio lavoro è fatto così, non mi è dato sapere la fine delle storie», non sapendo forse di avere qui un altro vantaggio, e di carattere morale stavolta, visto quello che sosteneva Manganelli a spada tratta, cioè che le storie è moralmente ingiusto farle finire.

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