Pilastri e Cerniere, perciò non Reggono

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ROMA — Shoe box, li chiamano gli americani, scatole di scarpe. Oltre alla morte, alle macerie e alle famiglie scaraventate nelle tende, stavolta il terremoto ha portato la paura dei capannoni, venuti giù come nemmeno le casette medievali. Cemento grigio, 1.000 metri quadri di media, in Italia ne abbiamo più di 700 mila. E di questi, secondo l’ultimo rapporto dell’Agenzia del Territorio, oltre 80 mila sono proprio in Emilia Romagna. Da lì vengono fuori merci che conquistano i mercati stranieri, il 30% diventa export. Solo da Modena e Ferrara arriva l’1% del nostro Pil, il prodotto interno lordo. Sono il cuore dell’economia di quella terra e dell’Italia intera, i capannoni. Rappresentano uno dei simboli di un Paese che lavora. 
Ma adesso ci accorgiamo che sono anche l’anello debolissimo di un patrimonio edilizio che già  di suo non è il massimo della sicurezza. «Sono edifici molto semplici — spiega Bernardino Chiaia, professore di Scienza delle costruzioni al Politecnico di Torino — formate da pochi pilastri e travi. Riescono a resistere solo a sollecitazioni verticali mentre in caso di sollecitazioni orizzontali, come quelle provocate da un terremoto, possono venire giù come un castello di carte». Castello di carte, proprio così. Sembrano le parole di chi ha appena sentito la terra tremare e sta tremando pure lui, di chi è scappato tra la polvere di uno di quei colossi venuti giù. E invece è il pacato ragionamento di un esperto del settore, che siede anche nel consiglio d’amministrazione dell’Ingv, l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia. Il punto è che le travi sono poggiate sui pilastri, a tenerli insieme è solo una cerniera, nulla di più. Se la terra trema, la trave può perdere l’appoggio del pilastro. E allora viene giù, insieme al tetto. Possibile? Possibile che strutture dove lavorano ogni giorno migliaia di persone siano fatte «seguendo il modello dei Lego», come dice un altro ingegnere, il bolognese Guido Cacciari con 20 anni di esperienza nelle zone sismiche?
Prima del 2003 quel pezzo di Emilia Romagna non era considerato zona a rischio. Solo dopo il terremoto di San Giuliano di Puglia la cartina, in realtà  pronta dal 1999, è stata modificata. Fino ad allora i capannoni sono stati costruiti come se la terra non avrebbe mai tremato. «Non c’è un problema di violazione delle regole — dice Gaetano Maccaferri, presidente di Confindustria Emilia Romagna — semmai una questione di aggiornamento delle regole. Ma non dimentichiamo che in questa zona l’ultimo terremoto forte risale al 1500. Chi poteva dirlo?».
Dobbiamo dire grazie proprio a quella cartina aggiornata con quattro anni di ritardo se buona parte dei capannoni emiliani sono venuti giù uccidendo Gianni, Kumar, Mohammad e tutti gli altri operai che si stavano guadagnando lo stipendio. Perché è stato proprio in quegli anni che anche l’economia del capannone ha vissuto la sua bolla. La legge Tremonti bis, approvata nel 2001 e proposta dall’allora ministro dell’Economia, assegnava incentivi fiscali alle imprese che reinvestivano i loro utili in «beni strumentali». Capannoni, sostanzialmente. In soli cinque anni, e solo in Veneto, sono stati costruiti edifici industriali pari a un capannone alto 10 metri, largo 28 metri e lungo più di 200 chilometri. Un boom che ha portato sicuramente tanto lavoro ma anche una montagna di problemi. Alla sicurezza, come abbiamo visto. Al paesaggio, tanto che ogni giorno il cemento si mangia 45 ettari di verde. Ma anche all’economia. Magari l’ingegner Perego portato a teatro da Antonio Albanese esagerava un po’: «Nella mia famiglia — diceva nel suo spettacolo Giù al nord — lavoriamo tutti da generazioni. Mio nonno ha fatto il capannone piccolo, mio padre quello grande, io quello grandissimo. Mio figlio si droga. Ha scoperto che non riuscirà  mai a fare un capannone più grande del mio». Ma adesso che la bolla è scoppiata e l’economia soffre i problemi si vedono sul serio. I capannoni sono troppi, nel 2009 le compravendite sono crollate del 15,9%, il prezzo è sceso a 546 euro al metro quadro. Non li vuole più nessuno, molti sono vuoti, sfitti, abbandonati. Solo nella provincia di Treviso sono uno su cinque. In Emilia Romagna li stanno contando proprio adesso: «Le nostre associazioni di Modena e di Ferrara — spiega ancora il presidente degli industriali, Maccaferri — si stanno attivando per vedere se è possibile trasferire lì chi ha avuto le proprie strutture danneggiate. Naturalmente a patto che non ci siano problemi di sicurezza». E che gli operai siano d’accordo.
Anche nel resto d’Italia molti capannoni sono in cerca di una nuova destinazione. Non sempre è possibile fare come a Porta Genova, dove le strutture industriali della Milano di un tempo sono diventate loft e appartamenti di prestigio. L’80% delle shoe box d’Italia si trova nei piccoli comuni, una volta abbandonate rischiano di diventare terra di nessuno. Solo pochi anni fa la leghista Manuela Dal Lago aveva lanciato la sua proposta di riconversione industriale: «Vista la crisi in corso potrebbero essere riadattati per la vendita del sesso. Permetterebbero controlli contro i magnaccia, controlli sanitari, e pure il pagamento delle tasse».


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