Ogni giorno il cemento fa sparire quarantacinque ettari di verde
ROMA — Ultimi in Europa per sviluppo economico, produttività , investimenti in infrastrutture e crescita demografica, un primato almeno non ce lo toglie nessuno. Nel soil sealing non abbiamo rivali. Traduzione: impermeabilizzazione delle superfici naturali. Succede quando si consuma pericolosamente territorio con palazzine e capannoni, come stiamo facendo in Italia da troppi anni. Producendo in questo modo, sono parole contenute nell’ultimo rapporto annuale dell’Istat, «impatto ambientale negativo in termini di irreversibilità della compromissione delle caratteristiche originarie dei suoli, dissesto idrogeologico e modifiche del microclima».
Che dimensioni abbia assunto questo fenomeno lo dice con chiarezza un numero: 7,3%. È la superficie totale dell’Italia non più naturale. Parliamo di un’estensione paragonabile a quella dell’intera Emilia-Romagna o di tutta la Toscana. E il dato fa ancora più impressione se paragonato alla media del continente europeo, che certo non si può definire disabitato e rurale, pari al 4,3%. Nella nuova provincia di Monza è cementificato oltre il 50% del suolo. In quella di Napoli, il 43,2%. In quella di Milano, il 37,1%.
La sconsideratezza con la quale abbiamo aggredito il nostro territorio sta arrivando ad alterare in certe aree, scrive l’Istat, «un equilibrio storico fra paesaggio e insediamento urbano», mettendo così a repentaglio la nostra principale risorsa. Con il rischio di compromettere «le possibilità di sviluppo connesse alla fruizione turistica». Per non dire del modo in cui si costruisce in un territorio fragile e sempre più dissestato nel quale, come dimostra il terremoto dell’Emilia, il rischio sismico è quasi ovunque incombente.
Legambiente per prima aveva sollecitato l’urgenza di una contabilità nazionale del consumo di suolo, spiattellando dati raccapriccianti. Condivisi non già da arrabbiati ultrà naturalisti, ma da intellettuali incapaci di rassegnarsi davanti allo scempio. Come il presidente del consiglio scientifico del Louvre Salvatore Settis che nel suo libroPaesaggio Costituzione cemento ha profetizzato: «Vedremo boschi, prati e campagne arretrare ogni giorno davanti all’invasione di mesti condomini, vedremo coste luminose e verdissime colline divorate da case incongrue e palazzi senz’anima, vedremo gru levarsi minacciose per ogni dove. Vedremo quello che fu il Bel Paese sommerso da inesorabili colate di cemento». La notizia è che non sono più soltanto le associazioni ambientaliste o qualche autorevole voce fuori dal coro a invocare attenzione sui pericoli che stiamo correndo, ma che finalmente si è accesa una spia anche nelle istituzioni. Difficile ignorare un allarme come quello che lancia adesso l’istituto presieduto da Enrico Giovannini: fra il 2001 e il 2011 il consumo del suolo è aumentato dell’8,8%, a fronte di un incremento della popolazione residente del 4,7%, quasi tutti immigrati. Come se in dieci anni fosse stato completamente saturato da costruzioni un territorio pari alla provincia di Milano: al ritmo medio giornaliero di 45 ettari. Medio, perché negli ultimi anni il ritmo si sarebbe intensificato, toccando punte quotidiane di 161 ettari.
Al Nord le ruspe e le gru si sono date da fare non poco, al punto che ormai il 12,9% della superficie del Veneto e il 12,8% di quella della Lombardia non sono più naturali (rispettivamente, secondo l’Istat, 2.375,9 e 3.050,7 chilometri quadrati). Ma al Sud hanno lavorato ancora più sodo: l’aumento è stato del 10,2%, contro l’8,7% del Nord-Ovest e il 7,8% del Nord- Est. Di questo passo il divario fra l’urbanizzazione del Nord e quella del Sud, ancora rilevante (siamo al 9,2% nel Nord-Ovest contro il 4,7 del Mezzogiorno), verrà presto colmato. Soprattutto in certe zone della Campania, come la provincia di Caserta, dove l’estensione territoriale coperta dal cemento si è accresciuta del 18,4%.
Qui il reddito procapite è inferiore alla media della Campania (11.833 euro contro 12.247) ed è metà rispetto a Bologna. Nel 2008 il prodotto interno lordo dei casertani, sempre procapite, non era che il 39% di quello dei milanesi, così basso da collocare la Provincia al novantanovesimo posto su 103. Il tasso di occupazione fra le persone in età lavorativa (dai 15 ai 64 anni) era del 38,7%, contro una media nazionale del 58,7%. I depositi in banca, nel marzo 2010, non raggiungevano i 5.900 euro procapite, uno dei valori più modesti in assoluto: meno di un sesto nei confronti di Trieste. Eppure, in questo apparente sfacelo economico, le costruzioni continuano a spuntare come i funghi. Nel solo 2007 sono stati edificati ex novo la bellezza di 135 centri commerciali: a Milano ne erano sorti 140, in tutta la Liguria 121. Per non dire delle 4.235 nuove abitazioni, il 25% in più rispetto alla provincia di Palermo dove pure non si risparmia il cemento. E non è solo colpa dell’abusivismo.
Certo, nel Paese ci sono differenze significative anche nelle strategie di cementificazione. L’Istat sottolinea infatti che nel Centro-Nord si punta sull’espansione delle località esistenti, fino a sommergere tutti gli spazi che separano l’una dall’altra: in Lombardia lo spazio urbanizzato si è esteso in dieci anni di ben 225 chilometri quadrati. Al Sud la tecnica è invece quella di creare nuovi centri abitati. Rispetto al 2001 ce ne sono 1.024 in più, il 42,3% di tutte le nuove località italiane. Dieci anni fa, per esempio, il numero dei centri abitati della Puglia era del 17% inferiore. In Sardegna, del 12,1%; in Sicilia, del 10,2%.
Per consolarci, potremmo ricordare che pure i boschi sono aumentati. Negli ultimi vent’anni del 20%. Secondo Legambiente la superficie forestale ha raggiunto 10,2 milioni di ettari, 1,7 milioni in più rispetto all’inizio degli anni Novanta. Rispetto al Dopoguerra, poi, è quasi raddoppiata. Ma è una consolazione assai parziale: l’incremento delle foreste non è avvenuto a scapito del cemento, che come abbiamo visto continua a sbranare il territorio senza però che si realizzino le infrastrutture necessarie a un Paese sviluppato, bensì dell’agricoltura. Gli alberi si stanno semplicemente riprendendo lo spazio che l’economia rurale aveva loro sottratto. Benissimo per il nostro polmone verde, meno bene per quei territori cui è venuta meno la manutenzione contadina. Settis ricorda che fra il 1990 e il 2005 la superficie agricola utilizzata si è ridotta di 3 milioni 663 mila ettari: se consideriamo quelli riconquistati dalle foreste, significa che in tre lustri la natura ha perso 2 milioni di ettari.
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