Non sta succedendo a me

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Q uando i vicini di casa sono entrati, Luisa aveva il viso sul tavolo della cucina, il suo ex compagno le impediva di muoversi. «Ricordo che uno di loro ha guardato il coltello del pane sul lavello: ha pensato che il mio uomo avrebbe potuto ammazzarmi». Luisa, 38 anni, toscana, lo racconta «senza vergogna». Nel momento peggiore aveva addirittura perso la voce. «Un’afonia senza spiegazioni, secondo i medici. Non riuscivo a dire a nessuno quello che mi era capitato. Non riuscivo nemmeno a capacitarmi che fosse successo a me: noi eravamo persone normali». 
Spesso i maltrattamenti vanno avanti per anni, prima che le donne riescano a lasciarsi alle spalle queste situazioni angosciose. Oppure si concludono con un omicidio: succede ogni tre giorni, in Italia. I cosiddetti «raptus» sono rari: nel 70% dei casi gli uomini uccidono dopo lunghi periodi di vessazioni e stalking. 
Il compagno di Luisa è un dirigente d’azienda. All’inizio è un idillio, poi arrivano le botte: «La prima volta è stato perché avevo messo al posto sbagliato un mestolo. Sento ancora il rumore dei colpi sulle orecchie. Dopo mi ha detto: mi devi ringraziare, ti ho picchiata dove hai i capelli, così non si vede». Luisa chiama il numero antiviolenza della Casa della donna. Ha paura. «Il primo istinto è startene buona: ti convinci che se non fai storie lui si calmerà , che devi solo aiutarlo a cambiare». Poi arriva il sostegno del centro: «Non mi hanno mai detto “lascialo”, ma mi hanno dato le informazioni e gli strumenti per farlo». 
Denunciare è il passo successivo. Una scelta difficile, che viene fatta solo dal 7% delle donne. E solo tre su dieci ne parlano con qualcuno. Solitudine e isolamento, dunque, sono tra le cause del silenzio. 
«Spesso le donne non osano denunciare i loro compagni perché non incontrano sul loro cammino avvocati o operatori sociali preparati», spiega Marzia Ghigliazza, avvocatessa specializzata in diritto di famiglia. E spesso le denunce non si concludono con condanne perché gli avvocati non portano in aula le testimonianze giuste». La storia di Giovanna, in questo senso, è classica. «Ho sottovalutato i segnali», racconta. Si tormenta le mani questa donna di 50 anni, mentre torna indietro con la memoria. Buona famiglia, studi nelle migliori università  d’Europa, conosce il suo futuro marito quando è un giovane in carriera. Si amano, si sposano, lei rimane incinta. Al settimo mese di gravidanza Giovanna scopre il tradimento. Chiede spiegazioni. In cambio riceve calci che le lasciano lividi sulle gambe. «Sono scappata di casa, mi sono nascosta di notte in una cabina telefonica, accucciata per non farmi trovare. Non potevo andare dalle mie amiche, mi avrebbero giudicata». Giovanna va in un centro di aiuto della città  dove abita: «Ci ho provato tre volte: era sempre chiuso». 
Oggi sono passati otto anni, Giovanna guarda indietro, non l’ha denunciato: «È il padre di mio figlio, continuavo a ripetermi». A tratti si assolve. A tratti si condanna. «Speravo rinsavisse, che la nascita del bambino cambiasse le cose. E non ho fatto attenzione ai campanelli d’allarme: anche prima delle botte era violento verbalmente. Sbottava per un nonnulla». Poi la paura più grande: «Non essere creduta». Un timore che si avvera: perfino le persone più vicine all’inizio faticano ad accettare che quell’uomo giovane e bello sia un violento. 
«Le donne che trovano il coraggio di denunciare sono delle eroine», dice Angela Romanin, operatrice del Centro per non subire violenza di Bologna. «Affetto e senso di vergogna si mescolano alla paura di ritorsioni. E soprattutto c’è la consapevolezza di una giustizia che non le protegge abbastanza. Prima che lui sappia che lei lo ha denunciato c’è la corsa a mettersi in salvo. E tra la denuncia e il processo passa un tempo infinito, almeno 5 o 6 anni. In Italia poi i dati anagrafici sono pubblici, ho seguito casi in cui lei ha dovuto cambiare città , ma lui si è licenziato e ha cominciato a cercarla in tutt’Italia. E alla fine l’ha trovata, perché un comune ha dato al marito l’indirizzo della nuova scuola dei bambini». 
Tra le donne che hanno sopportato per decenni c’è Sara, romana, 50 anni. «I primi tempi prendevo le botte come un gesto d’affetto: sono cresciuta con una padre violento, credevo che anche il mio ex lo facesse perché mi amava». La reazione di Sara è stata una profonda depressione, che l’ha portata a un ricovero e poi alla psicoterapia. Finita il giorno in cui il marito l’ha seguita, è entrato nello studio della psicologa e ha spaccato tutto. La dottoressa lo ha denunciato, poi ha telefonato a Sara e le ha detto che non poteva più seguirla. Sono iniziati anni di sevizie, minacce di morte o di suicidio (da parte di lui), referti in ospedale, denunce poi ritirate. «I carabinieri mi mandavano a chiamare e chiedevano: cosa vuole fare, proseguire o mettersi d’accordo? E io ritiravo», dice Sara. Anche questo succede spesso: «Senza una formazione specifica, le forze dell’ordine tendono a trattare le violenze come un fatto privato, che i coniugi devono risolvere da soli. Alcuni assistenti sociali li chiamano “conflitti”, invece che reati», spiega Anna Costanza Baldry, psicologa e criminologa.
Solo nel 2005, dopo quasi dieci anni di sevizie, Sara ha trovato la forza di chiedere di nuovo aiuto e si è rivolta al Centro antiviolenza della Provincia di Roma. Lì ha incontrato l’avvocatessa Teresa Manente, che un anno dopo ha portato il caso a processo. Sembrava fatta. Invece la mattina dell’udienza Sara ha mandato un fax in tribunale, per ritirare il mandato e la richiesta di costituirsi parte civile. «Ero in preda al panico: mio marito aveva bruciato il negozio di mia mamma». È il terrore, non il dolore, il nucleo delle violenze domestiche: le donne vivono nella paura costante, pensano soltanto a sopravvivere, tornano sui loro passi. Così danno forza ai persecutori. Sara ha vissuto in una bolla per anni. Finché un’amica le ha detto: «Tu hai paura di morire, ma sei già  morta». Qualcosa è scattato: Sara ha cambiato la serratura di casa e ha scritto su tutti i muri, con il pennarello rosso: «Sono uscita dal cancro». A fine 2010 ha convinto l’avvocatessa Manente a riprendere il suo caso. Nel frattempo l’uomo è stato condannato per maltrattamenti a un anno (con l’indulto non farà  carcere); è in corso un processo per stalking e gli è stato notificato il divieto di dimora nel Lazio. Sara non ha più paura: «Se la legge funziona, se non sei sola, puoi provare a rinascere a una vita (davvero) normale».


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