New Economy Formula Krugman “Insegnanti e welfare contro la depressione”

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NEW YORK «Calma, calma, sono solo un economista». Paul Krugman è divertito, un po’ imbarazzato, ma anche abituato: una sua apparizione in pubblico a New York suscita le ovazioni e urla di approvazione degne di una rockstar. La scena si ripete quando sale sul placoscenico del centro culturale 92Y sulla Lexington Avenue per discutere il suo nuovo libro. Ressa da stadio, folla in delirio. In fondo il tifo popolare se l’è meritato, questo premio Nobel dell’economia trasformatosi in opinionista del New York Times (e Repubblica), censore dei tecnocrati dell’eurozona, keynesiano a oltranza, guru della nuova sinistra americana. Si è conquistato questa “base di massa” perché osa spingersi dove altri non vanno. Il suo blog è uno strumento di battaglia politica contro l’egemonia culturale della destra. Il suo nuovo libro, nell’edizione americana promette o intima “Fuori da questa depressione, subito!”. Depressione? Addirittura? L’editore italiano Garzanti, che lo pubblica a fine mese, non se l’è sentita di usare un termine che evoca gli anni Trenta, le code dei disoccupati alle mense dei poveri, il nazifascismo. E così il titolo italiano suona un po’ più tradizionale: “Fuori da questa crisi, adesso”. Perché Krugman non esita invece a usare un termine ben più drammatico? «Quella che attraversiamo – risponde – la chiamo la Depressione Minore, per distinguerla dagli anni Trenta. La differenza è meno sostanziale di quanto si creda. Anche allora ci fu una prima recessione, poi una ripresa inadeguata, poi la ricaduta. I tassi di disoccupazione reali di cui soffriamo non sono tanto inferiori a quelli di allora. E se guardiamo al numero di disoccupati a lungo termine, che qui in America restano oltre i 4 milioni, siamo proprio a livelli da anni Trenta». Il messaggio che questo libro martella con insistenza è che il male va combattuto, oggi come allora, con un deciso intervento statale. «Abbiamo bisogno che i nostri governi spendano di più, non di meno – sintetizza il 59enne docente alla Princeton University – perché quando la domanda privata è insufficiente, questa è l’unica soluzione. Assumere insegnanti. Costruire infrastrutture. Fare quello che fu fatto con la seconda guerra mondiale, possibilmente scegliendo spese utili».
Quell’avverbio “subito” che tuona nel titolo del suo libro, Krugman lo esplicita senza esitazioni: se l’Occidente applicasse la ricetta giusta, potremmo essere fuori da questa crisi in 18 mesi. Un anno e mezzo! Attenzione: questa non è una promessa da comizio elettorale. Il bello di Krugman, quello che ti affascina nel personaggio, è l’impegno con cui tiene insieme il suo “ruolo pubblico”, di opinionista schierato e aggressivo, con il rigore scientifico del teorico che macina grafici e statistiche come un computer. Capace di passare dall’uno all’altro in pochi istanti, per rispondere all’obiezione politica principale: la sua ricetta oggi appare inascoltata, inapplicabile, impraticabile, perché siamo terrorizzati dal livello del debito pubblico. Non è solo un problema europeo. Anche qui negli Stati Uniti 15.300 miliardi di dollari di debiti, quasi il 100% del Pil, sembrano un ostacolo insormontabile per la sua terapia keynesiana. «Falso, falso – risponde secco – anzitutto dal punto di vista storico. In passato gli Stati Uniti ebbero un debito ancora superiore, durante le seconda guerra mondiale; la Gran Bretagna per quasi un secolo. Il Giappone ha tuttora un debito statale molto più elevato in percentuale del suo Pil eppure paga interessi dello 0,9% sui suoi buoni del Tesoro. Quindi non esistono soglie di insostenibilità  come quelle che ci vengono propagandate. Inoltre è dimostrato, e lo vediamo accadere sotto i nostri occhi, che in tempi di depressione le politiche di austerity aggravano il problema: accentuano la recessione, di conseguenza cade il gettito fiscale, così in seguito ai tagli il debito aumenta anziché diminuire». 
Resta però il problema politico, e non solo in Europa dove c’è un ostacolo che si chiama Angela Merkel. Anche qui, Barack Obama non ha osato sfidare i repubblicani con una seconda manovra di spesa pubblica anti-crisi. «Anzitutto perché all’inizio Obama sottovalutò la gravità  di questa crisi – risponde Krugman – mentre adesso sta cambiando posizione. Il fatto è che a lui conviene battersi fino in fondo per le sue idee, tenere duro, non cercare compromessi. Se Obama vince a novembre, io credo che governerà  meglio nel suo secondo mandato». 
Un’altra obiezione frequente alla sua ricetta keynesiana, riguarda la qualità , l’efficacia, la rapidità  della spesa pubblica. La macchina burocratica è spesso inefficiente, non solo nell’Europa mediterranea ma anche qui negli Stati Uniti. Krugman ha una risposta anche a questo. «La prima cosa da fare – spiega – è cancellare l’effetto distruttivo dei tagli di spesa. Per esempio, qui negli Stati Uniti, bisogna cominciare col ri-assumere le migliaia di insegnanti licenziati a livello locale. Queste sono manovre di spesa dagli effetti istantanei. In Europa, la manovra equivalente è restituire le prestazioni del Welfare State che sono state ingiustamente tagliate». 
Veniamo dunque al malato più grave del momento: l’eurozona. A questo paziente in coma, Krugman sta dedicando un’attenzione smisurata. Spesso i suoi editoriali sul New York Times sono duri attacchi all’austerity d’impronta germanica, appelli ai dirigenti europei perché rinsaviscano prima che sia troppo tardi. «Guardate cos’è accaduto all’Irlanda – dice – cioè a un paese che si può considerare l’allievo modello, il più virtuoso nell’applicare le ricette dell’austerity volute dal governo tedesco. L’Irlanda ha avuto una finta ripresa e poi è ricaduta nella recessione. All’estremo opposto ci sono quei paesi asiatici, dalla Cina alla Corea del Sud, che hanno manovrato con energia le leve della spesa pubblica, e così hanno evitato la crisi». Krugman considera probabile l’uscita della Grecia dall’euro, ma lo preoccupa di più il “dopo”. Denuncia il rischio di un «effetto-domino, se la Germania non cambia strada». Avverte che le conseguenze di una disintegrazione dell’Unione «sarebbero perfino più gravi sul piano politico che su quello economico». I suoi modelli, oltre ai paesi asiatici, sono la Svezia e perfino la piccola Islanda: «Perché dopo la bancarotta ha avuto il coraggio di cancellare tutti i propri debiti con le banche, negare i rimborsi, ed è ripartita dopo una svalutazione massiccia». Uno schiaffo nei confronti della finanza globale, che il premio Nobel considera legittimo e benefico (per l’Islanda). E su questo conclude toccando una questione scottante: perché anche la sinistra quando va al potere diventa succube dei banchieri? Perché Obama all’inizio del suo primo mandato nominò così tanti consiglieri legati a Wall Street? La risposta di Krugman è fulminante: «Perché danno la sensazione di sapere. Sono davvero impressionanti, quelli di Wall Street: danno a intendere di capirne qualcosa, anche dopo avere distrutto il mondo, o quasi». Qualcuno già  punta su Krugman come prossimo segretario al Tesoro, se Obama viene rieletto a novembre. «Si vede che non hanno mai visto il caos che regna sulla mia scrivania e nel mio ufficio», scherza l’economista più influente e controverso d’America. Poi chiude: «A me piace il mio ruolo attuale, che definirei così: il castigatore delle idee sbagliate».


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