Nel cuore veloce d’America

by Editore | 29 Maggio 2012 7:31

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INDIANAPOLIS – Tanto lo sapete già : ha vinto Dario Franchitti, nome italiano, ma in realtà  viene dalla Scozia. Qui alla 500 Miglia di Indianapolis aveva già  vinto due volte, con questa fa tre ed eccolo approdato nella leggenda. Per gli amanti del gossip, la sua fidanzata si chiama Ashley Judd, famosa attrice: levita leggiadra ai box, come una sorta di apparizione, ed evidentemente porta fortuna. E con questo, la notizia l’ho liquidata e posso passare a raccontare.

Se Indianapolis è Indianapolis è anche perché qui si corre da quando le corse quasi non esistevano: le facevano negli ippodromi, mettendo ai piloti delle maglie colorate, come ai fantini, per riconoscerli: ci misero un po’ a capire che dipingere sulle auto un numero era più pratico. Si correva sulla terra e quindi il tutto si consumava in un nuvolone di polvere in cui si intravedeva giusto qualcosa. L’idea di fare dei veri e propri circuiti, disegnati apposta per le corse, appariva ancora come un’ambizione da grulli, ma a Indianapolis un passo avanti lo fecero: tennero il modello di pista delle corse di cavalli ma lastricarono il fondo di mattoni, che adesso sembra una follìa e allora invece dovette sembrare solo una tollerabile rottura di palle (ne misero giù 3 milioni e duecentomila, di mattoni). Di quel selciato, mitico, gli americani, che avendo poca storia non ne buttano via neanche un centimetro, hanno salvato una striscia, proprio sulla linea del traguardo: le gente ci va, si inginocchia e bacia i mitici brick: è gente fatta così. 
Fatta la pista si inventarono la gara: duecento giri gli sembrarono una bella misura ed è così che nacque la 500 Miglia. A vincerla per primo, nel 1911, fu un certo Ray Harroun. Per dire che automobilismo era, la vinse perché evidentemente ci sapeva fare, ma soprattutto, per opinione unanime, grazie al fatto che la sua vettura presentava un’innovazione tecnologica decisiva: aveva lo specchietto retrovisore. Detta così sembra una belinata, ma occorre ricordare che ai tempi correvano in due, pilota e meccanico, e il meccanico serviva per voltarsi indietro e dire al pilota cosa stava succedendo in pista. Ray Horroun mise lo specchietto e eliminò il meccanico: macchina più leggera e vittoria assicurata. Erano altri tempi.
Dunque si va a Indianapolis per coltivare una storia che viene da lontano, e questo spiega molte cose, ma non tutto. Ad esempio non si può capire nulla di questo mito se non si fa attenzione al giorno in cui accade: ultimo weekend di maggio, cioè alla vigilia del Memorial Day. Il Memorial Day è il lunedì in cui gli americani ricordano tutti i loro caduti in guerra, e quando dico tutti dico tutti, valgono anche quelli dell’Ottocento (valgono anche i diciotto reduci che ogni giorno si suicidano negli Usa, statistica ufficiale). Per un giorno gran parte della nazione smette di lavorare e rende omaggio a chi ha dato la vita per la bandiera. Indianapolis, a modo suo, magnetizza questa alta marea di sentimenti e la convoglia intorno all’intensità  di un fatto sportivo, cioè al simulacro di un fatto guerriero. Perfetto. Infatti arrivano in 500mila, al circuito, anche per sentirsi americani, e quando passano i veterani, in piedi sui pick up, due ore prima della gara, la coerenza è assoluta. L’apice si tocca quando, a macchine già  schierate sulla griglia di partenza, tutto sprofonda in un silenzio irreale, centinaia di migliaia di persone si alzano in piedi, la mano sul cuore, i meccanici mollano quello che stavano facendo, si mettono tutti in fila, muti, nelle loro tute colorate, e nell’aria partono le note dell’inno americano. Lì, se hai un cuore, l’occhio umido te lo ritrovi, non c’è santo. Tuttavia accade anche di avere un cervello, e così, mentre di fianco a un meccanico da centrotrenta chili cercavo di commuovermi, mi è venuto in mente che forse io non vorrei vivere in un Paese che nel giorno dei caduti si stringe intorno alla bandiera, cantando di eroi e gonfiando il petto di fierezza guerriera: forse non vorrei neanche vivere in un Paese che non ha mai smesso di essere in guerra, ed è padrone del mondo anche per le armi che produce e possiede. Voglio dire, ricordare i caduti dovrebbe portare a un semplice, elementare riflesso: detestare la guerra e pretendere la pace, ogni pace. Ma mi guardavo intorno e non vedevo niente del genere. Era un’altra roba. Finito l’inno, dagli spalti è salito un coro spontaneo, scandito, USA USA USA. Non so, da noi l’inno, prima della partita, ci divertiamo a fischiarlo, per cui non è il caso di dare lezioni a nessuno. Ma se si fossero messi a gridare PACE PACE PACE, io personalmente mi sarei sentito un po’ più a casa.
È casa loro, comunque, e quindi facciano quel che gli pare, ho pensato. E me ne sono andato a guardare una cosa che adoro: gli occhi dei piloti, dalla feritoia del casco, mentre sono già  nell’abitacolo, e mancano pochi minuti alla partenza. Hanno un sacco di gente attorno e un sole canicolare che picchia sull’asfalto e sulla testa. Ma loro, immobili. Con gli occhi non guardano niente se non un punto invisibile, dentro loro stessi, dove magari ripassano semplicemente la prima traiettoria, ma forse invece fissano se stessi, in uno specchio che esiste solo lì e in quel momento: capace che fanno quel mestiere per guardarci dentro, in quei pochi istanti. Gli passerà  davanti come un’ombra, come un microscopico pensiero di morte? Chissà . (Una volta l’ho chiesto a un torero, se pensava mai alla morte, anche solo per un istante, prima di entrare nell’arena. Risposta: sarebbe il caso, ma me ne dimentico sempre).
Poi un frastuono indimenticabile e partenza. Tutti schiacciati uno addosso all’altro e subito oltre i 350 chilometri all’ora. Come ho già  spiegato, niente vie di fuga, niente frenate, un muro tutt’attorno. Regole crudeli, c’è poco da fare. La drammaturgia è studiata per bene e rispetta un’idea prettamente americana di come debba srotolarsi lo spettacolo dello sport: c’è una prima fase in cui quel che succede non è importante, per cui hai tempo di arrivare in ritardo, di cercarti con calma quello che vuoi mangiare, di salutare gli amici, di telefonare a casa o al commercialista. Intanto quelli vanno a canestro o infilano curve a 360 all’ora ma senza che la cosa abbia grandi conseguenze. Da metà  in poi si mangia e si inizia a valutare come stanno andando le cose. A tre quarti della faccenda si incomincia a non rispondere più al telefono e si smette di ingozzarsi. Gli ultimi dieci minuti, infine, sono adrenalina pura, lo devono essere, e lì puoi essere anche il prof. Monti, ma non capisci più niente, urli e basta. (L’assoluta inadeguatezza del calcio a rispettare un simile schema contribuisce a spiegare perché da queste parti se ne freghino altamente dello sport più bello del mondo).
Di suo, la 500 Miglia di Indianapolis, e tutto l’automobilismo di cui lei rappresenta la vetta, aggiunge una variante niente male: la corsa ricomincia un bel po’ di volte. Date le premesse, non mancano gli incidenti, e ogni volta scatta la bandiera gialla: tutti in fila dietro alla safety car e distacchi annullati. Eri lontano di cento metri e adesso sei di nuovo attaccato a quello davanti (dovrebbe esistere qualcosa del genere nelle storie d’amore. Anzi, adesso che ci penso, esiste.). Quindi nuova partenza lanciata, nuova ammucchiata, e scosse di adrenalina per tutti. Funziona. Più ti avvicini al finale, più il parti e riparti diventa serrato. Il risultato è che dopo essersi fatti l’equivalente della Roma-Torino alla velocità  di un Frecciarossa e girando sempre e solo a sinistra, come vittime di un incantesimo cretino, i migliori finiscono per giocarsi tutto nei tre giri finali, o la va o la spacca. Una gara in cui a cinque minuti dalla fine potresti già  sapere chi vince, da queste parti è una cosa da rimborso del biglietto. 
Nella fase delle telefonate al commercialista, non avendo particolari problemi fiscali, me ne sono andato a vagabondare un po’ ai box, dove sotto un sole giaguaro energumeni di ogni età , con la testa nel microonde del casco, e i corpi stipati in tute da alta montagna, fanno quel che devono fare, cioè armeggiare tra computer, pneumatici e benzine con apparente disincanto. Ogni tanto, a sorpresa, appoggiata su un compressore, vedi una borsa di Vuitton e allora sposti lo sguardo di un attimo ed ecco una figura singolare, cioè la fidanzata del pilota. O moglie, sorella, qualche volta madre. Non hanno l’aria di divertirsi. Sguardo spento, gesti minimi. Stanno in una loro cabina che immagino fatta di sensazioni e sentimenti che a scuola non insegnano. Chissà  il cuore, che ginnastica. Intanto gli energumeni in casco e tuta declinano il loro dovere in un caos organizzato che è la fotocopia, ne sono sicuro, del garage di casa loro. Ne escono gesti rotondi, imparati a memoria: in quel frastuono, non una parola, nel caso basta uno sguardo. Me ne sono rimasto un bel po’ lì, più che altro per stare vicino al suono, a quel suono, l’urlo agonizzante di una macchina sparata su un rettilineo. Negli occhi è un lampo colorato, nelle orecchie è un urlo davvero, roco e primitivo, secco ma profondo, quando ti sfiora gli si incrina dentro qualcosa, e allora fila via improvvisamente svuotato, portandosi via come il sound di un qualche scampato pericolo. È una musica fatta di due note, sempre le stesse, ripetute per centinaia di volte. Una specie di ottava discendente, lo dico per gli esperti e per fare sfoggio di cultura. Ti entra dentro, come un mantra, e mi sa che poi continui a ballarla per un bel po’, a cose finite.
A proposito di cose finite, a un certo punto ho realizzato che eravamo al buono e sono andato a godermi il finale seduto di fianco a una coppietta che mi studiavo già  da un po’. Tutt’e due sui settant’anni, ma senza saperlo. Lui, evidentemente, un biker: baffoni e barba, bianchi, cranio rasato, nuca trasformata in un cuoio da vecchia poltrona Frau, eredità  di chissà  quante miglia, sotto il sole, sulla sua Harley. Lei minuta e carina, vestitino leggero a fiori, occhiali da sole con lenti rosa, un sorriso da ragazzina: me la sono immaginata negli anni Sessanta e le ho invidiato tutti i suoi ricordi, magari incautamente. Si tenevano per mano, e nella manona di lui quella di lei era un fazzoletto, o una lettera stropicciata, ma bene. Intanto bandiera gialla e ripartenza. Tutti in piedi, i 400mila nel circuito, e tutti gli altri, fuori, o davanti al televisore. Dall’ammucchiata escono in testa due auto rosse, Franchitti e Dixon, per la cronaca. Dietro – e dietro significa a un tiro di sputo – il giapponese Sato, vecchia conoscenza della Formula Uno. Quarto, ma con l’aria di aver perso l’istante, Tony Kanaan, un tipo che da ‘ste parti adorano perché è arrivato secondo, terzo, quarto ma mai primo, e il tutto senza mai perdere il buon umore. Al penultimo giro si affacciano sul rettilineo d’arrivo schiacciati in un fazzoletto, e l’urlo agonizzante che spalmano nell’aria sembra anche più bello di prima. Tutti a gridare, intorno, anche il prof. Monti. A tre quarti del rettilineo Sato sfrutta la scia, si infila tra le due rosse e mette il muso davanti a quello di Dixon, intravedendo la gloria. La vede distintamente nella forma di uno spiraglio tra la macchina di Franchitti, appena davanti a lui, e il bordo della pista. Se lo tiene negli occhi mentre si precipitano entrambi, come in un buco nero, nella curva. Immagino che sia per vivere momenti del genere che uno fa il pilota. Magari c’entreranno anche i soldi, o qualche voglia che viene da lontano, ma, alla fine, dev’essere per bruciare istanti del genere che ti ficchi in un abitacolo grande come una culla e ti spari sull’asfalto a una velocità  che non credo fosse nei piani del Creatore.
Si infila, Sato, perché la gloria non aspetta. Franchitti stringe di un nulla, per istinto, per mestiere e per perfidia. Forse una spanna, magari qualcosa di meno, ma prima c’era un varco e adesso non c’è più. Così, nell’eleganza malinconica di un testacoda impolverato, sfumano i sogni di un giapponese venuto fin qui per vincere una corsa che ora uno scozzese con un nome da contabile di Varese si sta portando via per sempre.

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