Mladic minaccia i parenti delle vittime
L’AJA – Non sembra niente affatto pentito e nemmeno così fisicamente malandato come raccontano Darko, il figlio, e Bosa, la moglie. Il tempo è ovviamente passato anche per lui e l’essere stato sedici anni in fuga non ha certo giovato al suo stato di salute, ma detto ciò Ratko Mladic appare perfettamente in grado di affrontare un processo. La puntuale conferma la si è avuta ieri. Completo color canna di fucile, camicia bianca e cravatta, l’ex comandante delle forze militari serbo bosniache, accusato di genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità , si è accomodato alle spalle del suo avvocato, Branko Lukic nel giorno della sua prima, ufficiale comparsa davanti ai giudici del tribunale penale dell’Aja. Con la stessa aria sprezzante di quando vestiva la divisa e una specie di mezzo sorriso stampato sul volto ha accolto l’ingresso delle corte. Poi un gesto d’intesa a beneficio dei “tifosi” serbi presenti in aula e infine una mano passata sulla gola, un infame «ti taglio la testa» rivolto a Munira Subasic, una delle madri di Srebrenica. Troppo perché il presidente di giuria non intervenisse invitandolo a smettere di «interagire» con la platea.
Altro che rottame, dunque. Il generale non si smentisce. Richiamato all’ordine da quello stesso magistrato, Alphons Orie, che i suoi legali hanno vanamente provato a ricusare, Mladic se n’è poi stato in silenzio, ha inforcato gli occhiali, preso qualche appunto, mentre Dermot Groom, il pubblico ministero, dimostrava, documenti alla mano, la sua piena responsabilità nell’attuazione di quell’abominio passato alla storia come pulizia etnica. «La leadership serbo-bosniaca ha perseguitato musulmani e croati in Bosnia Erzegovina per il solo fatto – ha argomentato Groom – di non essere serbi». In alcuni casi gli attacchi sferrati avrebbero raggiunto il livello di genocidio. Come in tre distinte, atroci occasioni: l’esecuzione di 150 musulmani a Vecici nel ‘92, il massacro di Srebrenica e la strage del mercato di Markale nel centro di Sarajevo nel ‘95. La Procura ha le prove, ha affermato Groom, che dimostreranno oltre ogni ragionevole dubbio che dietro questi crimini c’era la mano di Ratko Mladic.
In Bosnia, ha quindi spiegato il Pm nel ricostruire gli anni della guerra, la leadership serba di Radovan Karadzic, legata a filo doppio a quella di Slobodan Milosevic a Belgrado, mise a punto un piano per creare un territorio serbo sul suolo bosniaco, espellendo tutte le altre, diverse etnie. E fu Mladic incaricato di “fare pulizia”. La prima parte di questo processo che si annuncia lungo – almeno tre anni, questa la stima del procuratore capo, il belga Serge Brammertz – si concluderà oggi per poi riprendere, il 29, con l’audizione del suo primo testimone.
Undici i capi d’accusa contro il “macellaio dei Balcani”: due genocidi, quattro crimini di guerra e cinque contro l’umanità . Sono inclusi l’assedio di Sarajevo, con i suoi 10mila morti, e il sequestro di 200 caschi blu e funzionari Onu, nel ‘95. Dall’atto di accusa sono stati esclusi i crimini attribuibili a Mladic in territorio croato. E’ stata inoltre respinta la richiesta della Procura di tenere un processo separato per il solo genocidio di Srebrenica, il più efferato crimine di guerra commesso in Europa dopo l’Olocausto. Mladic rischia l’ergastolo, sempre che arrivi vivo alla lettura della sentenza.
Le parole, pur pesanti come pietre di chi inchioda l’ex generale alle sue enormi responsabilità sembrano piume rispetto a ciò che raccontano le facce delle vere vittime di quella tragedia, le madri e le vedove di Srebrenica. Mentre si celebrava il processo, fuori la sede del Tpi all’Aja, una ventina di loro hanno manifestato spontaneamente. Chiedevano una sola cosa: «Che sia fatta finalmente giustizia a spese di colui che rappresenta l’incarnazione del male».
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