LETTERE O SMS

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È tutta apparenza la facilità  del tema “semplice-complesso” che voglio sviluppare: un’abile trappola, molto tentante. Al primo impatto, queste due parole, normali abitanti del nostro linguaggio, forse perché stavo andando a teatro, mi hanno fatto pensare a due dame di Goldoni. Amiche certamente, sedute al caffè come ogni pomeriggio, in pieno litigio come ogni giorno. Madama Complesso parla senza sosta, è grassa e sudata. Madama Semplice, sottile e vestita di bianco, si alza, è arrivato il suo giovane servo per reggere l’ombrello da sole e la borsa. «Cà¡lmate tesoro. A doman. Stessa ora». Se ne va veloce. Madama Complesso si sventola il largo petto e ordina un altro caffè con evidente insoddisfazione, compiange quella semplicità . 
E se avessero attraversato i secoli, oggi come sarebbero? Sì, in televisione, mi dico entrando in camerino, in un impegno sociale come quelli imposti dalle riunioni mediatiche pomeridiane. La Complesso è lì, elegante, truccatissima, lunghi capelli lavatissimi sulla faccia. La sua voce supera l’intero vociare maschile e femminile, è spesso applaudita, c’è grande impegno in quello che dice. Finché arriva la sferzata della Semplice. Sottile, senza trucco, le lunghe gambe magre accavallate sotto la minigonna. L’accesa discussione è bloccata. Semplice annuncia con voce dimessa che purtroppo deve andarsene. Applauso. Complesso si dà  una energica sventagliata ai capelli. Pubblicità . 
E se non fossero donne? Sarebbe un gran peccato. Dare un volto umano a tutto ciò che è astratto è prima di tutto comodo e poi avvicina alla comprensione. È stato facile immaginare che la complessità  sia ben tornita e spesso malcontenta, mentre la semplicità  quasi incorporea non ha che il problema dell’essenzialità . Ti pare niente? Devo vincere la mia istintiva predilezione per lei. Ma il mondo è figlio della complessità , negativa e positiva. Anche se non è facile definire la semplicità , non è un vestito senza fronzoli. Mi si affacciano alla mente due colossi della storia musicale dell’Ottocento, cari alla mia passione per il melodramma: Verdi e Wagner. I due grandi, prossimi entrambi ai loro bicentenari. La semplicità  di Verdi e la complessità  di Wagner che hanno così a lungo intrigato i loro contemporanei. La semplicità  è certamente di Verdi, la complessità  di Wagner.
«Eh, ben – mi ha interrotto un soprano – semplice la cabaletta dei Lombardi? La faccia un po’ quella Giselda lì».
«Ho detto semplice, non ho detto facile».
«Appunto».
Verdi è chiaro a se stesso, quindi semplice. Quelle note che iniziano l’opera non possono che portare a quelle finali. Niente è tolto al dramma che precipita non alieno dalla sintesi. Wagner è inseguito dalla sua incontentabile creatività . Sembra che la interroghi per un finale, sofferto consenso. Non è che la mia opinione. Lui è certamente complesso. Quale delle due forme mentali in questione è più criticabile? Esclusi i casi come quelli citati in cui hanno prodotto capolavori. Il giudizio finale non sarebbe facile neanche per una giuria televisiva; e sì che loro se ne intendono. Uno psichiatra sarebbe forse più attratto da un soggetto complesso, ma un filosofo, penso, da uno semplice. La storia del pensiero è sobria. Quella della quotidianità  è bizzarra e piena di contraddizioni. I primi a stupirsene sono proprio gli uomini e vanno a farselo spiegare dallo psicanalista. In mancanza di meglio, specialmente le donne, si fiondano dal cosiddettostrizzacervelli. 
Tutto nella storia indica la costante presenza di queste due tendenze e rimane veramente difficile stabilire quale delle due sia, se non altro, più proficua. Vorrei citare un mio libro. Non è rigorosamente inedito, ma quasi. È stato inizialmente pubblicato nel favoloso Sessanta dal geniale Leo Longanesi, scomparso da molti anni. Era una raccolta di lettere di donne, titolo appunto «Le donne». Nel ristamparlo la Einaudi mi ha chiesto di scrivere uno scambio di comunicazioni attuali, via computer naturalmente o, in caso estremo, via posta. Sono stata quindi costretta a rileggermi anche con molti sorrisi. Come era involuta l’operazione lettera; scriverla, l’unica cosa semplice. Che sospiro di sollievo vedendola sparire dentro quella cassetta rossa, appesa ormai sapevo dove. Adesso non si sa neanche chi li trasporta questi nostri brevi pensieri, che sono dopotutto pensieri, comunicazioni. Semplice, vero? Semplice forse il cervello dell’inventore. Lo scrivente aveva alcune cose da pensare, la principale prendere la decisione di scrivere. Sento nelle lettere inventate nel sessanta, che era mia intenzione esemplificare «l’impegno lettera». È ovvio che nel sistema di comunicazione attuale questo tipo di impegno non c’è più. Quindi dal complesso al semplice. No. Nel mezzo, non nel dispositivo umano. C’è una occulta nevrosi in quelle parole digitate, che nasce da un profondo disagio fatto di piccoli pensieri, o necessità  impellenti, e mostra fretta che non ha sempre una ragione, ne ha molte, è complessa. Non ha confronto con l’antica saporosa disposizione a “mettersi a scrivere una lettera”. Chi digita è in un’altra situazione altrettanto saporosa. Si sofferma raramente a scegliere un aggettivo, ma lo eccita quasi visceralmente la certezza che avrà  fra pochi minuti la risposta. Del resto, fra quelle missive che partivano a cavallo o in una minacciata diligenza e un espresso prioritario dell’altro ieri c’è comunque un bello scarto di progresso. Ma quel binomio semplice-complesso rimane un mistero psicologico. E anche estremamente difficile da giudicare. Semplice può sembrare miserevole come sublime; complesso, insopportabile come glorioso.
Oggi si funziona a “messaggini”. “Gli mando un messaggino” è nel più corrente linguaggio quotidiano. Semplice? No, incline a quella via di mezzo che caratterizza il nostro tempo.
Da Ada a Mamma, da Mamma ad Ada
Mamma perché non mi rispondi? 
Sto uscendo. 
Ti chiamavo proprio per dirti di non uscire… 
Ho già  il cappello in testa.
Levatelo. C’è la manifestazione con grossi tafferugli.
Benissimo. Magari non avessi mal di schiena…
Pazza, è pericoloso, ti trovi sola là  in mezzo…
Cosa vuoi che mi facciano… sono una signora.
Appunto. Con i soldi in borsa. 
Per forza, vado a pagare il salumiere.
Non puoi andarci domani? Come sei vestita?
Ho il cappotto rosso.
È un faro il rosso!
Credi di essere spiritosa? Basta.
Ti blocco tutto. A cominciare dal libretto. Sai se il tuo salumiere ha la lingua? Non la trovo più.
Certo che ce l’ha. Tu vai in quei baracconi. Te ne prendo un po’.
Qui sotto hanno bloccato tutto, ti rendi conto? Già  che ci sei prendimi anche del crudo buono, quello che piace a me, e il gorgonzola più verde che puoi, anche quello è introvabile. E stai attenta, mamma matta…
Finiscila! Sto attraversando… e non ci sono le strisce.


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