MA IN AMERICA È UN’ABITUDINE
L’astensionismo è una malattia cronica della democrazia. Nell’antica Atene lo si curò pagando l’equivalente di una giornata lavorativa ai cittadini che si recavano in assemblea; in alcune democrazie moderne il diritto di voto lo si rende un dovere, multando chi non si reca alle urne. Ma nella patria della democrazia moderna, gli Stati Uniti, non si sono mai usati né incentivi né punizioni per impedire quello che è sempre stato un fenomeno corrente e perfino stimolato. La partecipazione al voto era bassissima anche nel Settecento, negli anni della fondazione, quando a rigor di logica ci si poteva attendere che la passione politica albergasse nei cuori degli ribelli di Sua Maestà britannica e soprattutto quando erano ancora pochi a godere del diritto di voto, del resto associato alla tutela degli interessi dei proprietari. Contrariamente agli stati europei che sono diventati democratici lottando contro nemici interni (gli aristocratici), una situazione che spiega sia la forte motivazione ideologica che l’identificazione del diritto di voto con la libertà politica, lo stato americano è nato repubblicano, opera di pochi virtuosi in reazione contro una monarchia degenerata, ma senza per questo volere un governo democratico. I padri fondatori erano decisamente diffidenti verso la democrazia, nel loro secolo qualificata come dispotismo della massa. Quindi quando misero nel consenso il fondamento della loro repubblica lo fecero senza pensare che nella partecipazione politica risiedesse la libertà . L’appello alla partecipazione era raro negli scritti dei padri fondatori. Del resto, il diritto di voto è stato da subito concepito come un diritto dell’individuo, simile a quello di parola o di religione; un diritto che lo stato si impegnava a garantire rendendone l’uso sicuro, non facile. Per essere liberi è sufficiente avere un diritto, non è necessario usarlo. Questa visione – che si regge su una diffidenza profonda verso la politica istituzionalizzata – non è cambiata quando dopo la guerra civile agli schiavi è stato concesso il diritto di voto, passo decisivo verso il suffragio universale. L’associazione della libertà con l’avere, non l’esercitare, il diritto di voto spiega perché nonostante le lotte pionieristiche delle suffragiste americane l’affluenza alle urne non è mai stata ampia neppure nei momenti politicamente più attivi.
La scienza politica americana riflette il timore della democrazia partecipativa dei padri fondatori. Per autori liberali come Walter Lippmann, la sovranità democratica e l’espressione della volontà popolare erano sinonimi di tirannia della maggioranza, non di buon governo né di libertà . Per molti autori del ventesimo secolo, la politica era un’attività di secondaria importanza: se le cose vanno bene, questa la loro convinzione, non c’è ragione che il popolo si affanni a perdere tempo con la politica. Negli anni ’30 e ’40, in risposta ai dispotismi di massa europei, si consolidò la convinzione che quando l’attività politica è vigorosa, come per esempio nella Germania che portò a Hitler, la democrazia è in imminente pericolo. L’apatia venne per questo ritenuta un segno di salute della democrazia, un indicatore che non c’erano problemi per i quali mobilitarsi. Oggi sembra vero l’opposto. La disaffezione degli elettori è un segno nemmeno troppo criptico di un profondo senso di malessere politico. E preoccupa il presagio che la robusta partecipazione elettorale (57%) che segnò la vittoria di Obama non sarà replicata il prossimo novembre. La defezione elettorale è a tutti gli effetti il segno dell’insoddisfazione dei cittadini verso una classe politica timida e poco competente, quando non disonesta, e verso le sue promesse non mantenute.
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