«Soldi ai figli, Bossi sapeva È una truffa allo Stato»
MILANO — Alza il tiro l’inchiesta sui rimborsi elettorali della Lega Nord e punta diritto al simbolo storico del Carroccio: Umberto Bossi, fondatore del partito, è indagato per truffa ai danni dello Stato perché sapeva che parte di quei 18 milioni di euro finivano per pagare le spese personali dei suoi figli Renzo e Riccardo, anche loro indagati.
Quando ieri mattina gli uomini della Guardia di finanza di Milano bussano alla porta della sede di via Bellerio, Bossi riposa ancora nella foresteria a lui riservata. Ci mette un po’ prima di presentarsi e vedersi consegnare personalmente l’informazione di garanzia firmata dai pm Alfredo Robledo, Paolo Filippini e Roberto Pellicano che lo accusano di concorso in truffa ai danni dello Stato. Come segretario federale della Lega, secondo i magistrati milanesi, ha firmato insieme all’allora tesoriere Francesco Belsito (già indagato anche per appropriazione indebita) il rendiconto delle spese sostenute nel 2010 per l’attività politica del partito grazie al quale la Lega ha ottenuto ad agosto scorso 18 milioni di euro come rimborso. Era un documento «inveritiero», sostengono i magistrati, perché «non dà conto della reale natura delle uscite, come non dà conto della gestione in nero (sia in entrata che in uscita) di parte delle risorse affluite al partito» e che ha tratto in inganno il Parlamento, si legge negli atti. Non si tratta solo di una ipotesi di responsabilità formale legata a una semplice firma, secondo la Procura c’è di più. «Abbiamo avuto elementi utili per dire che Umberto Bossi era consapevole dell’utilizzo dei fondi anche per terze persone», spiega il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati facendo riferimento ai soldi usati per pagare le spese personali dei figli di Bossi, il consigliere regionale lombardo (dimessosi) Renzo e il primogenito Riccardo.
Che Umberto Bossi sapesse dove finissero i soldi del Carroccio lo ha dichiarato ai pm per primo proprio Belsito (cacciato dalla Lega) a fine aprile quando, interrogato, ha detto che aveva sì carta bianca per le spese e gli investimenti della Lega, ma ogni volta che per la famiglia Bossi superava i 3/4.000 euro lui informava direttamente il Senatur. Belsito, che si autodefiniva «il tesoriere più pazzo del mondo», teneva una contabilità riservata di queste uscite «private» che conservava gelosamente nella cassaforte del suo ufficio di Roma nella famosa cartellina «The family». Intercettati al telefono, Belsito e l’impiegata amministrativa Nadia Dagrada parlano più volte della necessità di discutere con Bossi della situazione dei conti gestiti dal tesoriere, del giro di fatture false, dei bonifici e degli assegni. Anche Daniela Cantamessa, l’assistente di Bossi, ha dichiarato, ma sotto interrogatorio, che Bossi non era all’oscuro: «Lo avevo avvisato delle irregolarità di Belsito, o meglio della sua superficialità e incompetenza».
I magistrati di Milano per ora scelgono la soluzione della «iscrizione minimalista» e non indagano Umberto Bossi anche per concorso in appropriazione indebita di rimborsi elettorali della Lega. Lo fanno, invece, e solo per questo reato, nei confronti di Renzo e Riccardo, ai quali sarebbe finito un fiume di denaro per pagare dalle macchine al dentista, dal ristorante alla benzina fino all’affitto di casa e alla farmacia. Alessandro Marmello, autista e guardaspalle di Renzo, ha addirittura filmato segretamente i soldi che, provenienti dal partito, passava in macchina all’allora consigliere regionale. «È denaro contante che ritiro dalle casse della Lega a mio nome, sotto la mia responsabilità . Lui incassa e non fa una piega», lo si sente dire mentre aspetta il Trota. La Gdf non ha potuto notificare l’informazione di garanzia a Renzo Bossi perché è in vacanza in Marocco. «Finalmente potrò difendermi», fa sapere lui dall’Africa.
La linea investigativa considera come ipotesi di reato solo le spese che al momento non sembrano avere nulla a che fare con l’attività politica della Lega. Gli investigatori stanno però esaminando i fondi andati al Sindacato padano guidato da Rosy Mauro, la vice presidente del Senato espulsa dal partito dopo lo scandalo. I pm vogliono verificare se i centomila euro usati dalla Mauro per acquistare diamanti siano stati deviati dall’attività politica del Sin.Pa (200/300 mila euro l’anno). Accertamenti anche sui finanziamenti alla scuola «Bosina» della moglie di Bossi, Manuela Marrone (si ipotizza un mutuo da un milione e mezzo).
Sul registro degli indagati finisce anche il senatore Piergiorgio Stiffoni, che amministrava i fondi (6 milioni di euro lo scorso anno) del gruppo al Senato. Per lui l’ipotesi di reato è di peculato per i 200mila euro della cassa spesi per comprare diamanti per sé, ma la Procura avrebbe anche individuato entrate e uscite sospette per circa 500mila euro dal conto Bnl del Senato a quello personale di Stiffoni. Sulla sua posizione lavorerà la Procura di Roma alla quale sono stati trasmessi gli atti per competenza territoriale. Infine è indagato il consulente Paolo Scala. Già sotto inchiesta per appropriazione indebita, ora l’accusa è stata modificata in riciclaggio perché avrebbe messo a disposizione un conto a Cipro sul quale sono finiti 6 milioni leghisti investiti da Belsito in Tanzania.
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