by Editore | 15 Maggio 2012 6:34
Alla fine degli anni Novanta anche la crisi economica giapponese aveva avuto tra le sue conseguenze un aumento significativo del numero di suicidi. Si trattava per lo più di uomini al di sopra dei cinquanta anni che si trovarono messi ai margini dei processi di ristrutturazione industriale. Spesso sceglievano di gettarsi sotto i treni che entravano in stazione. L’ampiezza di questa fenomeno condusse una compagnia dei treni di Tokyo ad installare dei cosiddetti “specchi anti-suicidio”. Gli psicologi giapponesi pensavano che restituire al soggetto la sua immagine avrebbe potuto avere un effetto dissuasivo: vedere la propria immagine di uomo avrebbe dovuto smorzare la spinta a suicidarsi. Una iniezione di narcisismo per contrastare il sentimento depressivo che li conduceva nel baratro. Pensiero ingenuo.
L’immagine di sé non è l’immagine che restituisce lo specchio ma quella che restituisce il corpo sociale, le persone che amiamo e che stimiamo; lo specchio che conta è lo specchio che ci restituisce la dignità del nostro essere uomini. Coloro che decidono per il suicidio sono uomini che hanno perduto la loro immagine, che hanno incontrato uno specchio in frantumi. Non possono più riconoscersi in nulla. Sono stati spogliati della loro stessa immagine perché hanno perduto la possibilità del lavoro come possibilità che umanizza e assegna valore alla vita. Il suicidio è il tentavo disperato di trovare una dignità smarrita. E non saranno certo gli specchi anti-suicidio a frenare questa decisione estrema.
Non solo di pane vive l’uomo, recita, com’è noto, la celebre massima evangelica. Gli psicoanalisti non sono certo i soli a verificarne la verità : la vita umana non si realizza solo attraverso l’appagamento dei bisogni primari, naturali, istintuali. La vita si umanizza attraverso l’acquisizione di una dignità simbolica che la rende unica e insostituibile. La vita si umanizza attraverso il suo essere riconosciuta dalla propria famiglia e dal corpo sociale di appartenenza. Di fronte alla tragedia dei suicidi causati dalla perdita del lavoro, da fallimenti professionali o dall’angoscia di non riuscire a sopportare l’aumento continuo dei debiti e l’onda sismica della crisi economica che stiamo vivendo, torna alla mente la potenza della massima evangelica. Non perché il pane non abbia importanza. E chi potrebbe negarlo, soprattutto in tempi di crisi, dove la stessa sopravvivenza degli individui e delle loro famiglie è messa a repentaglio? Eppure il dramma del suicidio è propriamente umano – e solo umano – perché in gioco non c’è solo il pane. La mancanza del pane può generare indignazione, lotta, contrasto, rivendicazione legittima di giustizia sociale, anche disperazione, frustrazione, scoramento. Ma non è la mancanza del pane in sé che può condurre una vita alla decisione di uscire dal mondo. Cosa motiva davvero i suicidi che riempiono drammaticamente le cronache di questi mesi?
Marx aveva assolutamente ragione a rifiutarsi di considerare il lavoro un mero mezzo di sostentamento. Egli pensava che l’uomo trovasse in esso non solo il mezzo per guadagnare il pane necessario, ma anche e soprattutto la possibilità di dare senso alla propria vita, di renderla diversa da quella dell’animale, di renderla umana. È il lavoro che dà una forma al mondo, che trasforma la materia, che realizza impresa, costruzione, progetto, che sa generare futuro. È ciò che portava Marx a conferire al lavoro umano una dignità fondamentale. Per questa ragione il lavoro non è innanzitutto fonte di alienazione, ma possibilità di realizzazione della vita come umana. Non è ciò che deruba la vita ma ciò che la costituisce. Eppure abbiamo conosciuto stagioni culturali dove il lavoro in quanto tale – e non la sua espropriazione capitalista secondo la tesi classica di Marx – veniva rigettato come fonte di alienazione e di abbrutimento della vita. Parlo ovviamente del lavoro e non delle sue condizioni materiali che possono effettivamente animalizzare la vita, insultarla, sfruttarla barbaramente.
La tesi del lavoro contrapposto alla vita e non come condizione della sua umanizzazione attraversa un certa ideologia marcusiana che ha condizionato il movimento del ’68 e che è giunta sino a noi attraverso gli anni Settanta. L’umanità dell’uomo non si esprime attraverso il lavoro ma nel tempo della vita sottratto al lavoro. Il culto del tempo libero dall’oppressione del lavoro avvia una nuova retorica, assai pericolosa, che finisce oggi – come aveva indicato con chiaroveggenza il liberale-conservatore Jacques Lacan – per colludere fatalmente con l’iperedonismo di cui si nutre il capitalismo occidentale: il lavoro è solo un limite, un peso, un’afflizione, un male. Meglio liberarsene, meglio fare soldi per altre vie, più rapide e meno faticose. Meglio seguire la “via breve” di un’economia di carta, finanziaria, speculativa, che non passare dalla “via lunga” e irta di ostacoli come quella del lavoro. L’ideologia della liberazione del desiderio conduce dritta dritta verso il rifiuto cieco del lavoro come forma di abbrutimento dell’uomo.
In Che cosa resta del Padre? avevo messo l’accento su di un errore fatale presente nella legittima contestazione sessantottina delle versioni disciplinari e autoritarie della Legge incarnate dal padre-padrone. Emanciparsi davvero dal padre non significa rigettarne l’esistenza. Per fare a meno del padre – sosteneva Lacan – bisogna sapersene servire. Il rifiuto del padre in quanto tale incatena per sempre al Padre; l’odio non libera ma vincola per l’eternità , genera solo mostri, ostruisce il dispiegamento della vita. La retorica del divenire genitori di se stessi di cui il nostro tempo è uno sponsor allucinato, trascura che nessuna vita umana si costituisce da sé. Rigettando la paternità si rigettava il debito simbolico che rende possibile la filiazione da una generazione all’altra; la libertà si sgancia dalla responsabilità e diviene puro capriccio, trionfo dell’arbitrio, potere di fare quello che si vuole. Ebbene, a proposito del lavoro le cose non sono affatto diverse. Il rifiuto ideologico del lavoro come luogo di mortificazione della vita contrasta oggi in tutta evidenza con la disperata esigenza del suo diritto, della possibilità che vi sia e che si dia lavoro. Mentre nel tempo che ha preceduto la crisi il lavoro era descritto come un peso, l’esplosione della crisi rivela la centralità del lavoro nel processo di umanizzazione della vita. Oggi le persone si ammazzano non per liberarsi dal lavoro, ma per rivendicare – seppure in modo distruttivo – la loro dignità di uomini, per poter realizzare la propria essenza umana attraverso il lavoro. È questo – il diritto al lavoro – il solo specchio anti-suicidio efficace.
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