«Io e Zuckerberg ad Harvard Il genio che supera la morale»
Mark Zuckerberg e io siamo nati nello stesso anno, il 1984. Nel 2004 ci siamo trovati per un paio di settimane nello stesso edificio, un dormitorio di Cambridge, Massachusetts, a poche porte di distanza — lui studiava a Harvard, io ero in visita. La persona che mi ospitava mi ha parlato del suo sito — una cosa interna all’università , che ai tempi si chiamava Thefacebook. Sono passati otto anni: io ho pubblicato due romanzi, lui ha creato un sito con 900 milioni di iscritti. Oggi, a pochi giorni dalla quotazione sul Nasdaq, è stimato intorno ai cento miliardi di dollari; in questo periodo, quindi, Mark l’ha fatto crescere di circa sessanta milioni al giorno. Anche la domenica.
Raccontare la storia di Facebook significa fare un elenco di smisuratezze. Il sito è nato per facilitare la comunicazione fra compagni di corso, e oggi ha quasi un miliardo di iscritti; si è inserito in modo più o meno profondo nella vita di milioni di persone, che lì si conoscono, si scrivono, condividono link, musica, video; per molti ha trasformato irrimediabilmente l’essenza stessa della Rete, accendendo (o cavalcando, o parassitando, a seconda del punto di vista) la cosiddetta rivoluzione dei «social media». E molte altre rivoluzioni, di vario segno, sono collegate all’operato di Facebook: un rapporto problematico e conflittuale con la tutela della privacy, dopo la libertà del web 1.0; una nuova ondata di start-up che si sono arricchite sviluppando applicazioni interne al sito; e, non da ultimo, l’affermarsi di un personaggio molto difficile da inquadrare, il primo nato degli anni Ottanta a entrare di diritto nella classe dirigente mondiale.
C’è una versione di Mark Zuckerberg che è un caso-studio eroico della meritocrazia. Introverso e intelligentissimo, sin da piccolo ossessionato dalla programmazione, è riuscito a costruire un impero a partire da un’ottima intuizione e dalla capacità di promuoverla — in poco tempo, e senza capitali di famiglia. Si è impegnato a donare in beneficenza metà dei suoi averi; ha promosso una cultura aziendale giocosa e tollerante, interessata ad assecondare le passioni dei dipendenti e a incoraggiarne la creatività . Incarna l’essenza dello «smanettone», astratto e semplice e buono, in grado di indossare con totale disinvoltura uno dei più consistenti patrimoni del mondo (il trentacinquesimo, per l’esattezza), perché in fondo di quelle cose si cura poco. In questa versione, Mark Zuckerberg ha realizzato il famoso ammonimento di Hemingway a Fitzgerald, secondo cui i ricchi non sono diversi da me e te, hanno solo più soldi. Anni fa, delle sue foto private sono state diffuse da un hacker (che per ottenerle ha sfruttato, curiosamente, un «buco» di Facebook). In una è con la fidanzata e dà da mangiare a un cagnolino, seduti per terra in un appartamento, e sembriamo io e Manuela; in un’altra è con Obama.
C’è però un’altra versione di Mark Zuckerberg, che per ogni vanto mostra l’interesse, la doppiezza, la pianificazione. In questa versione, Zuckerberg ha brigato e trafficato per estromettere da Facebook chi l’aveva ideato con lui; ha aperto il varco allo smercio sistematico di dati personali su Internet; ha sviluppato un nuovo modo di sfruttamento professionale, in cui sotto la maschera delle «passioni» un’azienda rende obbligatorio, e monetizza, un impegno privato che in teoria dovrebbe essere facoltativo. La sua filantropia sarebbe solo un tentativo di smarcarsi dalla fama di disonestà , e l’immagine spigliata di ventenne qualunque un camuffamento ipocrita e affettato. Questa versione di Mark Zuckerberg ha compreso l’importanza dell’orizzontalità , dell’eguaglianza, nelle comunità del web 2.0, e ne ha usurpato la facciata per accreditarsi come suo timoniere, mascherando un’ambizione sfrenata e un bisogno ossessivo di controllo. Ogni volta che con un mio coetaneo parlo di Zuckerberg finiamo per discutere di queste due versioni, rivoluzionario e democristiano, Garibaldi e gattopardo. Qual è quella vera?
Questa domanda è irrilevante. Peggio: è colpevole, perché incoraggia a interrogarsi scandalisticamente sul chi dando per scontato il cosa. Mark Zuckerberg come persona potrà anche essere infido e manipolatore — in ultima analisi, peggio per lui; ma per una società , come modello, lui è qualcuno che ha avuto un’intuizione sul funzionamento dei rapporti fra le persone e degli affetti, e l’ha trasformata in oro. (Questo, fra l’altro, fa di lui uno scrittore: anziché romanzi ha scritto pagine di codice, ma l’attività di partenza era la stessa, capire e scrivere. Ma divago). Da quest’intuizione ha costruito un impero, cambiando la vita di centinaia di milioni di persone. Ciò non rende irrilevante la questione morale, ma la mette su un altro piano. La questione morale è privata: ha a che fare col giudizio che si dà su una persona, ed eventualmente con l’alibi che si trova per se stessi per non aver seguito quella strada. La storia di Mark Zuckerberg, però, è pubblica.
Le biografie antiche si basavano spesso sul principio che, se la storia è maestra di vita, è lecito mentire a fin di bene, perché migliorando gli uomini illustri si migliora l’esempio che hanno da offrire. Sarebbe interessante fare lo stesso con Zuckerberg. Il modello che dà , se gli si presta fede, è utile, perché se più persone fossero come lui sostiene di essere, la società sarebbe complessivamente migliore. Che Mark Zuckerberg nei fatti sia o meno così è tutto sommato secondario. È difficile pensare alla sua storia senza provare invidia e vertigini; stare a cavillare sugli scheletri nell’armadio è l’alibi di chi preferisce rifiutare gli esempi piuttosto che provare a seguirli. In Italia, però, amiamo gli esempi sporchi, i modelli complessi e ricchi di ombre: probabilmente perché usciamo meglio dal paragone, e teniamo all’alibi più che al modello stesso.
Oggi Mark Zuckerberg lo scrittore compie ventotto anni: uno più di Nicole Minetti, uno meno di Antonio Cassano, un mese appena più di me. Non devo perdermi d’animo. Ho ancora un po’ di tempo.
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