L’imprevedibile Irlanda va al voto, la Francia ha cambiato direzione

by Editore | 31 Maggio 2012 14:24

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Sotto ricatto, l’Irlanda – secondo paese dopo la Grecia ad essere stato messo sotto tutela dalla troika (Ue, Fmi, Bce) – vota oggi con un referendum sul fiscal compact, il trattato europeo di stabilità , coordinazione e governance che impone la «regola l’oro» di bilancio. I termini del ricatto sono chiari: se gli irlandesi votano «no», perdono immediatamente l’accesso al Meccanismo europeo di stabilità  (Esm), la nuova struttura salva-stati. Il legame tra fiscal compact e Esm è stato voluto dalla Germania. Dublino ha assolutamente bisogno del Mes, perché la crescita zero blocca la possibilità  di ritorno sui mercati, prevista nel 2013. Dopo tre anni di recessione e sette piani di rigore, l’ex «tigre celtica» continua ad avere il deficit strutturale più alto della zona euro e potrebbe aver bisogno il prossimo anno di un nuovo piano di sostegno finanziario per far fronte alle scadenze del rimborso del debito.
«La nostra ripresa è fragile, non prendiamo rischi», ha affermato il premier democristiano Enda Kenny, per invitare a votare «sì». Tutti i grossi partiti (Fine Gael e laburisti al governo, Fianna Fail, opposizione) chiedono di approvare il fiscal compact. Contro, si sono dichiarate forze molto diverse, dalla sinistra radicale al Sinn Fein, fino all’organizzazione del miliardario Declan Ganley, l’ultraconservatrice Libertas. 
L’Irlanda – che almeno ricorre sempre al referendum sui trattati europei – aveva votato «no» nel 2001 contro Nizza e nel 2008 contro Lisbona, salvo poi essere richiamata alle urne, e votare «sì», dopo aver ottenuto alcuni opt out. Ma stavolta la situazione è diversa: Dublino è con le spalle al muro, ha bisogno dell’aiuto europeo e non ha nessun margine per ottenere qualche modifica al testo del fiscal compact, che entrerà  in vigore appena 12 paesi sui 17 della zona euro l’avranno approvato (per ora l’hanno votato i paesi con il cappio al collo, Portogallo e Grecia, oltre alla Slovenia per quanto riguarda la zona euro, mentre l’8 maggio l’ha approvato anche la camera dei deputati della Romania, paese non euro). «Andremo alle urne con la pistola alla tempia», ha riassunto il sindacato Ictu, che non dà  però indicazioni di voto. 
L’Irlanda, che negli anni ’80 e ’90, era stata indicata ad esempio, si è insabbiata in una lunga crisi, che ha fatto salire il tasso di disoccupazione al 14%, in una situazione di austerità  generalizzata, con aumenti delle tasse sui consumi di base, che hanno però lasciato in vigore il dumping fiscale a favore delle imprese. Il debito pubblico sarà  al 120% il prossimo anno. L’economia irlandese è molto dipendente dalla zona euro (40% degli scambi) e dalla Gran Bretagna (20%). Dublino, un po’ meno di tre anni fa, era riuscita a salvare le banche, bloccando un inizio di bank run grazie a una quasi-nazionalizzazione che ha permesso a un’agenzia specializzata di acquisire 90 miliardi di prestiti. Ma le famiglie restano fortemente indebitate, conseguenza della bolla immobiliare all’origine dello sboom. 
L’Unione europea continua ad essere presa nella tenaglia del risanamento a tappe forzate imposto da Bruxelles e dai mercati. Ieri la Commissione ha reso pubbliche le «raccomandazioni» rivolte a 12 paesi, frutto di un’inchiesta avviata lo scorso febbraio nel quadro di una nuova struttura di controllo comune, destinata ad evitare brutte sorprese. La ricetta è sempre la stessa, per tutti, dall’Italia alla Francia, passando per Danimarca, Spagna, Svezia o Gran Bretagna: salari sotto controllo, meno pressione fiscale sul lavoro ma anche meno garanzie, consolidamento dei bilanci, interventi sulle pensioni ecc. Queste «raccomandazioni» della Commissione arrivano in Francia in un momento di transizione politica: Bruxelles ha fatto i calcoli sulla base dei dati forniti dal governo Fillon, che non c’è più; ora sarebbe la sinistra a doverle applicare, in caso di vittoria alle legislative del 10 e 17 giugno. 
Per il presidente Hollande e il primo ministro Jean-Marc Ayrault si tratta di un’ingiunzione che va contro una serie di promesse fatte durante la campagna elettorale: ritorno alla pensione a 60 anni per chi ha cominciato a lavorare da giovane, leggero aumento dello Smic (salario minimo) a luglio, maggiore protezione contro i licenziamenti «di Borsa», investimenti pubblici nella scuola e per i giovani.

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