L’immaginazione sociale sepolta dal design

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E se nel precedente volume si scagliava contro la visione della Rete come una sorta di organizzazione politica in divenire per sovvertire l’ordine globale, in questo pamphlet se la prende come uno dei miti dell’era digitale, cioè Steve Jobs. Morozov assume fino in fondo il profilo di Jobs che emerge dalla sua biografia autorizzata scritta da Walter Isaacson e pubblicata dopo dopo la morte del fondatore della Apple (in Italia è stata pubblicata da Mondadori), ma ne cambia di segno. A differenza di Isaacson, infatti, Morozov interpreta la contraddittorietà  del personaggio sono da leggere come l’azione contraddittoria, certo, ma tuttavia coerente di un astuto e spregiudicato uomo di affari che non si ferma davanti a niente pur di raggiungere il suo obiettivo: diventare, appunto, un mito. Steve Jobs, annota il teorico bielorusso, è figlio, ma anche responsabile di una «bancarotta dell’immaginazione sociale» che, si può aggiungere, è avvenuta dopo la sconfitta delle controculture degli anni Sessanta. La Apple è cioè l’impresa che meglio di altre ha costruito le sue fortune sulle macerie prodotte di quella sconfitta.
Ma il volume di Morozov non è interessante perché svela la capacità  di Steve Jobs di assumere alcune tematiche di quei movimenti sociali e utilizzarle per fare profitti. Ci sono stati molti altri libri che lo hanno fatto – per l’Italia vale citare iJobs di Riccardo Bagnato (Manni) e il volume collettivo Mela marcia (Agenzia X) -, ma pochi hanno sottolineato l’ultima fase della Apple. Il riferimento è al cosiddetto «paradigma delle applicazioni». Per semplificare, basta ricordare che nel periodo successivo all’acquisto di un iPod o di un iPad o di un notebook, scatta l’operazione di caricamento delle «applicazioni», cioè di programmi informatici specifici per compiere alcune operazioni, come scaricare musica, leggere giornali, vedere film e molte altre ancora. Alcune sono a pagamento – pochi dollari o euro, che vanno comunque a riempire le già  floride casse della Apple -, altre no, ma quello che conta è che così facendo Apple diventa la piattaforma per entrare e stare in Rete. In un pessimo lessico manageriale, è un’operazione di fidelizzazione del consumatore. Steve Jobs però voleva molto di più che la fedeltà . Puntava a creare una cloud computing che avvolgeva gli utenti come un batuffolo di cotone quando si è infanti. Ci si sente protetti e, cosa più importante, basta solo muovere le mani su un video e il resto viene da sé. La tecnologia diventa invisibile, ma amichevole. È questa la vera scommessa di Steve Jobs. E che per il momento è stata vinta dalla Apple, nel senso che la società  fondata da Steve Jobs è quella che è riuscita a elaborare il primo cloud computing che produce profitti. Da questo punto di vista, gli Apple Store sono davvero il luogo in cui la cloud computing viene costruita e continuamente riprodotta, in un clima euforico e entusiasta che ricorda più un clima da Big Brothers che non un posto dove si «pensa differente».
Poco serve discettare se questa è innovazione o meno. Più realisticamente è sussunzione dell’intelligenza collettiva. È questa l’eredità  che Steve Jobs lascia. Che sia dilapidata o meno, sarà  il tempo a dirlo. Quel che conta è che la Apple ha elaborato un modello di business «totale». Produce in appalto presso grandi sweatshop dove chi lavora è quasi uno schiavo – e che spesso si suicida -, elabora gadget sobri e eleganti che sfruttano il design più glamour che esiste e vende in locali che promettono un’intensa emozione. È la fabbrica totale. Cioè una realtà  anni luce da quella controcultura saccheggiata a piene mani dopo che si era consumata la sua sconfitta.


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