LIBRI STREGATI “Macché scrittore controverso: non sono céline”
L’understatement di Alessandro Piperno ha qualcosa di invidiabile. Appare sereno. Corazzato. Indifferente al mormorio letterario che lo avvolge. Non mostra, nell’arrendevole adattarsi alle circostanze, nessuna ansia. L’immagine dello scrittore risolto non è incrinata neppure dal fatto che Inseparabili (seconda parte di un dittico) non abbia venduto forse quanto l’editore sperava. Anche la partecipazione allo Strega, premio ricco di insidie e contraccolpi, non produce in lui particolari turbamenti. Piperno è un fumatore di pipa. Strumento proverbialmente impugnato da chi del proprio carattere tende a esaltare la riflessività e una certa lentezza.
Rispetto alle altre volte in cui ci siamo incontrati mi appare meno teso. Se mi consente, meno nevrotico.
«Malgrado le cose si muovono attorno a me, non vivo una grande tensione. Ho imparato negli anni, in cui ho elaborato la mia narrativa, che la cosa più sana da fare è concentrarsi su quello che devi scrivere e non su ciò che hai scritto. Per cui non mi sono soffermato a pensare a quello che è accaduto. E poi, sono contento del dittico Il fuoco amico dei ricordi che, insieme a Con le peggiori intenzioni, considero una specie di trilogia della mia giovinezza. Del resto, quest’anno ho compiuto quarant’anni. Un’epoca della mia vita si chiude».
Sotto quale segno?
«A giudicare da quello che ho scritto, sotto Saturno».
Allude a una malinconia di fondo?
«Più che ad essa, penso che ciò che scrivo sia un impasto di sarcasmo, risentimento, nichilismo con una punta di sentimentalismo. Sono i tratti che mi dominano».
Che lei proietta sulla famiglia.
«Sì, ma come tutti quelli che scrivono contro la famiglia credo di essere un familista. Il mondo che metto in scena è quello del familismo amorale».
Non c’è il rischio che questa cruda descrizione dell’esistente per quanto ben raccontata dia fastidio a quei lettori che poi rinunciano a comprare i suoi libri?
«La narrativa seria, salvo qualche rara eccezione, non è mai edificante. E ho la sensazione che il problema della commerciabilità dei libri sia più un argomento per l’editore che non per l’autore. Detto questo credo di vendere abbastanza. Non mi sfiora l’ombra del fallimento».
Enzensberger ha fatto il bilancio dei suoi flop. Il vero fallimento per uno scrittore – sostiene – non è tanto non vendere, quanto quello provocato da tutti i libri che ha rinunciato a scrivere.
«Non sono totalmente d’accordo. Il fallimento di uno scrittore non dipende da tutto quello che non ha scritto, ma da ciò che ha scritto e che forse non doveva scrivere. Diciamo che l’idea di Enzensberger è deliziosamente estetizzante. Mi ricorda Baudelaire che per tutta la vita ha fatto progetti mai o parzialmente realizzati».
Però la paura del fallimento l’ha un po’ condizionata dopo l’uscita del primo romanzo.
«È un atteggiamento umano comprensibile. Avvertivo la pressione su di me. Ma è una percezione da cui spero essermi liberato».
E lo Strega, al quale ha deciso di partecipare, non crede che riproporrà proprio quelle pressioni insidiose?
«Che dirle? Mi sento moderatamente tranquillo. Dico moderatamente, come può stare, davanti al più importante premio letterario italiano, un individuo tendenzialmente schivo e nevrotico. Conosco la gioia della vittoria e la voluttà della sconfitta e so che entrambe sono, grazie al cielo, effimere. Sono pronto a qualunque risultato».
Lei sa che lo Strega è un premio in cui gli editori contano più degli autori. Tra un po’ si dovrà decidere la cinquina. C’è lei, portato dalla Mondadori, sicuramente Carofiglio e Trevi. Poi spunta il nome di Fois per Einaudi. Possibile che due case editrici, dello stesso gruppo, rischino di farsi la guerra sottraendosi voti?
«È una cosa sulla quale non ho riflettuto».
Lo faccia ora.
«Prova che le case editrici dello stesso gruppo sono abbastanza indipendenti. Einaudi ha diritto di presentare chi vuole. E poi quella delle candidature è una partita che uno scrittore ben intenzionato deve guardare con un po’ di distacco».
Come è nata la sua candidatura?
«Di comune accordo con l’editore. Mondadori è convinta di avere un buon libro e di poter ambire a vincere lo Strega. Mi ha chiesto se mi interessava, tenendo conto che il premio comporta diverse cose da fare. Ho accettato».
Non ritiene che la vittoria dello Strega non le cambierebbe molto la vita, anche se un po’ gliela migliora, ma che se lo perde può farle molto male?
«È un premio con dodici candidati. Cinque arriveranno in finale. Perché una mia eventuale sconfitta dovrebbe essere una catastrofe per me?».
Perché se Piperno vince, si dirà era scontato che vincesse, visto che dietro c’è Mondadori. Se Piperno perde comincerà il gioco mediatico: che i suoi libri non sono adatti, troppo amorali, che lei non è simpatico, che lei divide eccetera.
«Non è che il mio editore mi ha detto vai e vinci. Semmai: vai e prova a vincere. Sono un personaggio che divide? È la mia storia, sia che vinca o perda lo Strega. Temo, effettivamente, di essere un scrittore controverso. Non che l’idea mi piaccia. Perché mi fa pensare a una figura un po’ ridicola. Altri erano i veri scrittori controversi: Pound, Céline, oggi Houellebecq, anche se in lui, accanto all’indubbio talento letterario, ci sono elementi un po’ grotteschi per mancanza di ironia o per non sufficiente orrore di se stesso».
Lei può apparire come uno scrittore anomalo. Non è che partecipa allo Strega anche per un desiderio di normalizzazione?
«Le assicuro che la mattina quando mi metto a scrivere con flaubertiana pedanteria mi sento tutt’altro che anomalo. Quello che mi dice, mi viene ogni tanto restituito dagli altri. La verità è che sono uno scrittore italiano che pubblica per una grande casa editrice, che è percepito come tra i più noti della sua generazione e che prova a vincere lo Strega».
Ma per vincerlo forse non dovrebbe uscire un po’ dal suo carattere?
«Vuole che dica cose edificanti? E poi, non sono un uomo intraprendente. Mi rendo conto che per partecipare allo Strega uno come me debba lottare contro il proprio devastante fatalismo, ma certamente non chiamerò nessuno degli “amici della domenica” per chiedere loro il voto. Non ho idee strategiche. Ma vorrei rimanere nel perimetro delle cose dignitose. E occuparmi semmai del mio prossimo romanzo».
Ci sta già lavorando?
«Sono in una fase embrionale. Credo di avere in mano una storia abbastanza forte con un paio di titoli che mi frullano in testa».
Quali?
«Uno mi piace molto ma ricorda un precedente romanzo di Graham Greene: “La fine della storia”».
È anche il titolo di un celebre libro di Fukuyama.
«In realtà è proprio ad esso che si riferisce. Però traslato in un romanzo che dovrebbe essere una storia d’amore con qualche implicazione ironico epocale. E l’altro titolo, particolarmente adatto ai discorsi che abbiamo fatto finora, potrebbe essere “Pubblici infortuni”».
Bello, un po’ le somiglia. Ma la storia d’amore è un genere molto scivoloso.
«Lo so, è difficile. A me aveva colpito molto il romanzo di Vargas Llosa Le avventure della ragazza cattiva. Cimentarsi oggi con un romanzo d’amore è una grande sfida. Osservava George Steiner che l’unica storia d’amore credibile del ventesimo secolo è Lolita. Lo penso anch’io. È difficile dopo Madame Bovary e Anna Karenina scrivere qualcosa di avvincente».
Vorrebbe creare una storia senza edulcorazioni?
«La mia vorrebbe essere una storia estrema. E probabilmente, come tutte le storie estreme, rischia il ridicolo. Prima accennavo a Houellebecq. Qual è il problema dei suoi ultimi libri? Il fatto che si presenti come uno scrittore estremo. E purtroppo oltre l’estremo c’è spesso solo qualcosa di tendenzialmente ridicolo».
Lei lo chiama estremo e non limite. C’è una differenza?
«Credo che il romanzo estremo sia senza ritorno. Bisogna diffidarne».
Però l’attrae.
«Mi attira la dimensione non edificante che c’è nel gesto estremo».
Ed è disposto a correre il rischio del ridicolo?
«Lo scoprirò scrivendo. Ho la sensazione che stiamo vivendo in un’epoca ubriaca del politicamente corretto. Vedo in giro una quantità spaventosa di romanzi edificanti e di scrittori che fanno la lezione col ditino alzato. Rimasi molto turbato quando uscì negli Stati Uniti Le benevole di Jonathan Littell. Un libro importante, sbertucciato e ridicolizzato dalla critica americana. C’è qualcosa che non va. Nabokov oggi avrebbe più problemi a pubblicare Lolita di quanti non ne incontrò a suo tempo».
Teme per il suo “romanzo estremo”?
«Beh, me lo faccia almeno scrivere, poi ne riparleremo».
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