by Editore | 18 Maggio 2012 7:38
ROMA – Marina Valensise, Stefania Stafutti e Giorgio Amitrano sono i nuovi direttori degli Istituti italiani di cultura rispettivamente a Parigi, Pechino e Tokyo. La decisione è stata presa dal ministro degli Esteri Giulio Terzi al termine della procedura prevista per la nomina dei direttori “di chiara fama”. Valensise è giornalista, Stafutti insegna Lingua e letteratura cinese a Torino, Amitrano, preside di Lingue alla Orientale di Napoli, è anche traduttore dal giapponese di numerose opere letterarie. C’è sempre stato qualcosa di irrisolto nel rapporto tra l’Italia e le sue élites. Destinate, per loro natura, ad aggregare la società , orientandola verso finalità collettive, raramente hanno svolto tale compito, risultando in più di un’occasione esse stesse fattore di disgregazione. Disarticolate in una pluralità difficilmente riconducibile all’unità di una classe dirigente degna di questo nome, esse si sono scontrate per la difesa di privilegi antichi e nuovi, trasformandosi spesso in vere e propri comitati di affari, ben poco interessati al bene comune. Perché, e come, ciò sia accaduto, da dove nasca questa tendenza e cosa possa arrestarla, è quanto si chiede, con il solito misto di rigore storico e di intelligenza interpretativa, Carlo Galli nel suo I riluttanti. Le élites italiane di fronte alla responsabilità (Laterza). Proprio questo è l’angolo di visuale da cui egli guarda alla crisi italiana non solo quella, recentissima, di tipo economico, ma la crisi politica, sociale, culturale di lungo periodo che rende il nostro Paese in buona parte diverso dalle altre democrazie. Contrariamente ad un’opinione diffusa, essa non nasce dall’allargarsi della distanza tra ceto politico e società civile, ma piuttosto dalla sua cancellazione, che tende a fare dell’una lo specchio deformato dell’altra. E, più precisamente, dalla ricorrente dimissione di responsabilità delle élites che le sottrae al compito, loro proprio, di traghettare la società italiana da un difficile passato ad un futuro ancora indeterminato.
Nel quadro che egli profila l’attenzione per le continuità strutturali che sottendono le svolte storiche dal cinquantennio postunitario al fascismo, alle “due” repubbliche, fino ad oggi si coniuga con uno sguardo, altrettanto vigile, sulle differenze che tagliano la storia delle élites, articolandone la fenomenologia in una forma irriducibile ad un percorso lineare. Ciò che caratterizza tale storia è un movimento pendolare che, di volta in volta, riporta a galla un vizio di fondo, mai del tutto smaltito. Ma anche, in determinate occasioni e quasi a tempo scaduto, un guizzo, un colpo di reni inaspettato. Proprio quando l’aggancio con l’Europa sembrava ormai perso, per almeno tre volte negli anni drammatici che precedono l’Unità , dopo la sconfitta bellica e infine al culmine dell’attuale crisi economica le élites italiane ritrovano la forza per interrompere una deriva apparentemente senza sbocco, aprendo, pur in maniera sempre precaria ed incerta, una fase nuova.
Ma per non perdere la ricchezza del discorso di Galli, è necessario ripercorrerne a ritroso il filo, sovrapponendo, come fa l’autore, la storia reale delle élites alla percezione che ne hanno gli intellettuali. Come spesso accade, a mostrare maggiore capacità conoscitiva sono i letterati. In un breve torno di anni Leopardi e Manzoni fissano con nitidezza i caratteri regressivi delle classi dirigenti che frenano come un peso morto l’incipiente processo di unificazione. Inefficacia operativa e modestia culturale, particolarismo miope ed assenza di prospettiva, apatia e cinismo formano la miscela fangosa che risale le vene delle élites italiane. A mancare, prima ancora che un disegno chiaro di riscatto nazionale, è la capacità di unificare il Paese in un progetto condiviso che tenga insieme interessi individuali e valori generali. Neanche la raggiunta Unità , dovuta allo sforzo eroico di una élite illuminata, riesce a fluidificare il rapporto tra il nuovo ceto di governo nazionale e il notabilato locale. Un che di gretto e di chiuso uno spirito conservatore che tende a riproporre vecchi stili di vita e di pensiero soffoca, poco alla volta, le conquiste degli anni gloriosi, trascinando indietro l’Italia unita, come traspare dalle pagine dei Viceré di De Roberto e del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Quando, all’inizio del nuovo secolo, gli intellettuali si candidano, in modo velleitario e verboso, ad assumere essi stessi un ruolo politico, si crea quel cortocircuito tra retorica e degrado morale che consegnerà l’Italia al fascismo. Allora una frenesia interventista interpretata soprattutto da D’Annunzio non sarà che l’altro lato della tradizionale riluttanza dei colti’ a farsi classe dirigente di un Paese moderno.
Perché le élites italiane analizzate nelle loro costanti da scienziati politici come Mosca, Pareto, Michels, e da Gramsci con un più complesso metodo storico-dialettico tornino a giocare un ruolo positivo, bisogna arrivare al dopoguerra, quando, nell’emergenza della sconfitta, cominciano a collaborare a vario titolo alla ricostruzione del Paese. Dai padri costituenti agli industriali che avviano la ripresa economica, a intellettuali, artisti, registi di livello non solo nazionale, la Prima Repubblica, con tutti suoi limiti, raggiunge il doppio risultato di restituire dignità alla politica e di includere nuovi ceti nelle maglie dello Stato democratico. Certo, tutto ciò non fu esente da compromessi, chiusure, esclusioni prima tra tutte quella, obbligata da circostanze internazionali, del Pci. Ma le luci bilanciano nel complesso le ombre. Fino a quando, tuttavia a partire dagli anni Ottanta la società italiana conosce un nuovo, rapido, declino che, dall’assassinio di Moro, porta prima al decennio craxiano e poi, attraverso lo psicodramma di Tangentopoli, alla spericolata avventura del Cavaliere.
Senza soffermarci su questa dinamica involutiva, si può dire che mai come nel ventennio berlusconiano la funzione delle élites venga pervicacemente mortificata dalla concentrazione dell’intero potere politico, economico, mediatico nelle mani di un unico uomo capace di giocare insieme diverse parti in commedia: quella, dannunziana dell’eroe, quella carismatica del grande comunicatore e quella, infine, dell’uomo comune, portatore di vizi e di virtù, entrambe offerte come modello a cittadini increduli e insieme abbagliati da una sconcertante assenza di responsabilità pubblica e, spesso, di decoro personale. Mai come in questa fase recente, le élites italiane giudici, professori, scienziati appaiono inutili, emarginate, derise, se non si prestano ad essere asservite. Il tutto in un passaggio storico che tende a generalizzare sul piano mondiale la sudditanza della politica a forze anonime, soprattutto di tipo finanziario, che finiscono per spezzare il rapporto tra decisioni macroeconomiche e democrazia rappresentativa.
Proprio allora, tuttavia, ancora una volta, quando tutto sembra crollare portandoci vicino al punto di non ritorno, il collasso pilotato del berlusconismo sembra offrire un’ultima chance a un “governo dei migliori”, formato da quelle stesse élites professori, banchieri, alti burocrati, esponenti del mondo cattolico apparentemente messe fuori gioco. Su quale possa essere la durata, e l’esito, di questo esperimento, l’autore giustamente non si pronuncia. Certo, il rapporto tra politica, tecnica ed economia è ben più complesso di quanto analisi approssimative lascino pensare. Resta, comunque, una domanda di fondo: se questa nuova élite è espressione di quelle stesse potenze anonime dell’economia e della finanza grandi banche, holding internazionali, agenzie di rating che hanno in larga misura prodotto la crisi, sarà in grado di portarcene fuori? Qui forse la stessa analisi delle élites utilissima per uno sguardo dall’altro del società italiana andrebbe accompagnata da un’analisi dal basso, espressiva di quella lacerazione sociale e di quella disperazione materiale che trattiene il nostro Paese sulla cresta di un drammatico crinale.
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