L’artista della coscienza

by Editore | 24 Maggio 2012 5:59

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È stato Fabio Mauri un pittore figurativo – visto che si era chiesto cosa fosse la figuratività  in un intervento del 1997? Certo, se lo si paragona, che so, a Mondrian, Mauri ha proiettato su cose o corpi riconoscibili immagini di altre cose o addirittura ha messo in scena (installato) oggetti che di per sé dovrebbero rappresentare solo se stessi: uno zaino, un vecchio corno, un orologio, molte valige. No, se il pittore figurativo dei tempi suoi, e per eccellenza, era Guttuso. 
Negli anni in cui si sviluppa la vocazione artistica di Mauri, Guttuso era il pittore «politico» per eccellenza, impegnato, sorretto da una ideologia fortissima, quella di un partito e – si noti – ottimisticamente certo della propria ideologia e sventolante come una bandiera rossa. Negli stessi anni Mauri, invece, meditava sull’orrore in atmosfere semibuie, era poco incline all’utopia, non era sorretto da alcuna ideologia dominante, e tempo dopo ha affermato: «io non facevo politica, ma coscienza; è una cosa identica e insieme profondamente diversa. Sentivo che la volontà  di far politica poteva diventare presunzione. Molte volte sono stato invitato a fare parte di gruppi, ma ho sempre detto di no, io non faccio arte politica, dicevo, non sono un militante di partito, non mi calo in una postazione e se lo faccio, lo faccio già  attraverso una moralità  dell’arte» (Intervista, 2009).
Eppure tutta l’arte di Mauri parla del mondo così come è, come è stato, e come non avrebbe dovuto essere.
Verso la fine della sua carriera artistica e terrena, Mauri si era detto: «Non so ancora se a Dio interessi l’arte, non l’ho mai capito, tanto meno la mia che sottolinea il male per cui ho un certo occhio» (Nota autobiografica, 2002). E che occhio. Mauri ha sempre raffigurato il Male, di cui aveva tanto sofferto. (…)
Alla base di tutte le esperienze artistiche di Mauri c’è un sentimento fondamentale di insicurezza. (…). È incerto sulla sua incertezza. Analizzate in termini logici questa frase: «C’è sempre il suicidio a indicare il punto irremovibile d’uscita per la sopravvivenza dell’artista al crollo dell’idea che il rapporto tra sé e il mondo sia inconciliabile» (Blu cobalto, 1982). A che cosa dovrebbe sottrarci il suicidio? All’idea che il rapporto tra artista e mondo sia inconciliabile o al crollo (persino) di questa idea? Ad ogni buon conto, forse perché era insicuro di entrambe le interpretazioni di quell’affermazione, Mauri non si suicida. Lavora per decenni a spiegarci (e a spiegare a se stesso) perché.
Di che cosa non è incerto? La sua vita è davanti ai nostri occhi per ricordarcelo: non è incerto sulla funzione catartica dell’arte, sola terapia possibile.
Non è incerto delle sue «proiezioni». Aveva detto che l’esistenza non è priva di senso, ma non possiede tutto il senso di cui ha bisogno. Insicuro sul senso dell’esistenza, la sottopone alla manipolazione dell’arte. Se potrebbe essere privo di senso un corpo umano, dal torso di un amico al proprio volto, Mauri con le sue proiezioni cerca di trovare quel senso: «Noi proiettiamo come su uno schermo la nostra cultura, la nostra decifrazione delle cose del mondo … La proiezione mi spiega la nascita del significato, così vedo che la proiezione modifica il senso dell’oggetto» (Alfabeta2, 2, 2010). 
«Nel 1978 tentai di esemplificare materialmente, attraverso una performance fondata sul cinema, la complessa parabola del pensiero. Una serie di proiettori dirige i suoi film su una pari serie di schermi. Oggetti-schermo: un corpo nudo di negra, una conca di latte, un ventilatore in moto, una bilancia ecc. Schermi anormali dunque. Altrettanti veri oggetti del mondo. Si assiste alla dimostrazione fisica della nascita del significato».
E tale è anche il modo in cui il Mauri “nuovo realista” sottrae gli oggetti alla loro fisicità  abitualmente attonita. Si veda l’uso che egli fa delle valige per raccontarci, con gli orrori dell’Olocausto, la melanconia del Muro del Pianto, l’insicurezza di una diaspora permanente, quel popolo ebreo a cui varie volte avrebbe desiderato appartenere: la valigia, il muro di valige, l’ammasso di valige diventa la storia di un viaggio continuo. Ecco come gli oggetti, se stupidi, acquistano un senso. Isolando gli oggetti, Mauri (che tra l’altro pare carnalmente amarli, e compiacersene) ne fa apparire quel senso che essi hanno (o acquistano per mano sua) in più.
Di tutti i sensi che l’esistenza, e la Storia, possono assumere, Mauri ha quasi sempre scelto il più malefico (fare arte è per lui terapia di un Male che ha sperimentato): «Ricompongo con pazienza con le mie mani, l’esperienza del turpe. Ne esploro le possibilità  mentali» (Ebrea, 1971). Lo aveva detto, di avere un occhio per il Male.
Ed ecco dunque la sua ideologia: l’arte è il modo di rivivere (e non dimenticare) la storia del presente: «Un testimone, più paziente che attore, decide di reagire poeticamente, utilizzando la “distanza” della storia. A forza di inconfutabile memoria, egli rimonta un evento d’archivio, raccostandolo, nel ripresentarlo come “vero”, al presente … Si traduce il passato in presente» (Cosa è, se è, l’ideologia nell’arte,1984).
Mauri è stato artista impegnato a ricostruire l’esperienza del turpe senza essere artista politico dato che la sua unica certezza non era un progetto sul dover essere ma un rifiuto dolente di quello che era stato.
«Mi sono sempre chiesto che opere farei di fronte all’Apocalisse… Nasce la decisione ferma di seguire poche cose, fuori epoca, che ricordano i presenti e chi c’è già  stato. Pochi temi interrogativi, il motivo dell’esistenza, la sua fine, il male, l’ingiustizia, il dolore… Il senso del mondo si tramuta in un sentimento di strazio… Questa mia è una resa formale. Una bandiera bianca. Una certa misura di resa può scoprire forse alternative inedite di pace» (La resa, 2002).
Ho in casa un quadro di Fabio: una scritta su un pallido sfondo grigiastro, «The End».
Vedo che nell’installazione del 2003 dedicata al Muro del Pianto, dietro a una barriera di valige, campeggia uno schermo con la stessa scritta. Ogni viaggio ansioso ha una fine. Una delle poche certezze di un uomo insicuro.

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