by Editore | 28 Maggio 2012 3:56
«Leggere un libro? Richiede sempre più fatica e dedizione. E nell’epoca dei tablet e degli Ipad non è affatto scontato che un adulto sia capace di stare per più di un’ora immerso tra le pagine». Massimo Turchetta, 51 anni, laurea in filosofia arricchiti da studi in Fisica, solida esperienza nell’editoria tra Feltrinelli e Mondadori, oggi alla guida della produzione libraria targata Rcs, riflette con disincanto sul futuro dei libri e dei lettori. Il recente Salone torinese, con un boom di vendite e visitatori, ha portato un inatteso lucore in un quadro paragonabile a un Goya nero. Ma la sfida si mantiene ardua.
A Torino era palpabile tra i grandi editori un clima di paura e smarrimento.
«Non so se sia giusto parlare di paura e smarrimento. Certo è cambiato il paradigma. Per oltre un secolo la vecchia editoria di carta ha vissuto in modo stabile secondo una formula consolidata. Questa formula è stata scardinata dall’ingresso in campo di nuovi attori, Amazon e Google, Apple e Yahoo, i grandi gruppi che controllano il web. Il cambiamento è già avvenuto in America alcuni anni fa. Da noi ha coinciso con una crisi economica come non s’era mai vista. Ecco che siamo nella tempesta perfetta».
Lei ha sostenuto che, per uscirne, bisogna essere molto bravi. Ma come?
«Finora l’editore ha ricoperto un ruolo privilegiato, ossia è stato l’unico selezionatore di ciò che può essere proposto al pubblico dei lettori. Ora non è più così. Per questo deve diventare più bravo. Non si può limitare a scegliere tra quello che c’è già , ma deve diventare un allenatore di eroi. O, meglio, esserlo ancora di più».
Che cosa intende?
«Ha presente il film d’animazione Hercules? L’editore deve fare un po’ come Filottete, il vecchio satiro addestratore di Ercole. Accompagna un autore, lo fa crescere, e poi l’orienta. Questo richiede investimenti che non hanno un immediato riscontro, ma sono preziosi nel lungo periodo. Per il management estraneo al mondo editoriale è una cosa difficile da capire».
Lei ha fatto da “addestratore” ad alcuni scrittori di grande successo come Saviano, Giordano e Piperno. Poi però non li ha seguiti perché ha lasciato la Mondadori.
«Preferirei non tornare su questo passaggio. Io ho fatto una bellissima esperienza in un’azienda ricca di talenti. Complessivamente sono stato lì vent’anni. Poi siamo arrivati a una situazione problematica e ho deciso di vedere un altro pezzo di mondo. Io ho avuto questa opportunità , ma ci sono persone di grande valore che non hanno avuto la mia fortuna. E ho il massimo rispetto per loro».
Andrea Cane, un editor molto stimato che è stato messo alla porta dopo la sua uscita dal gruppo, ha accusato il managment mondadoriano di incapacità .
«C’è una cosa molto importante, che alcuni grandi gruppi editoriali – non solo in Italia – rischiano di dimenticare: l’editoria si fa con gli editori. Poi esiste una gran quantità di funzioni, dal marketing al controllo di gestione, che gli editori bravi devono saper maneggiare. Ma l’editoria senza editori è impossibile».
Quando lo disse André Schiffrin, oltre dieci anni fa, fu liquidato come un propagandista esagitato.
«In Italia non c’è ancora un grande gruppo editoriale posseduto da capitali stranieri. Noi abbiamo due grandi “gruppi media” – Mondadori e Rcs – che conservano il settore dei libri. L’ampia dimensione può indurre a credere che sia destinato ad avere successo solo chi ha competenze manageriali. Il fatto è che chi proviene da un settore lontano dall’editoria può avere problemi nel comprendere un mondo complicato come quello del libro».
Colpisce a volte anche il linguaggio. Nel dibattito sulla “tempesta perfetta” a Torino un esponente di un marchio molto importante ha parlato di libri “altovendenti”.
«Sento parlare anche di “libri performanti”, sono quelli che vanno bene. Fa parte dell’imbarbarimento del managerialese. In Italia, ma anche altrove, si sono succedute tre generazioni di editori. C’è quella dei vecchi publisher padroni dell’azienda. Poi sono arrivati gli editori non più padroni che però continuano a fare gli editori. Infine l’aggregazione di tanti gruppi editoriali ha prodotto un ceto manageriale specializzato anche sui nuovi media. Ora, senza fare del moralismo: l’editore è un mestiere insostituibile, e lo è ancora di più nel nuovo paradigma. Quel che gli si chiede è di rafforzare la sua funzione di “addestratore”, aprendosi anche agli strumenti messi a disposizione dalle nuove tecnologie».
A che cosa si riferisce?
«Da poco David Young, gran capo del gruppo Hachette, mi ha confessato: “Da un paio d’anni vado assumento gente di cui non capisco la job prescription, il profilo professionale”…».
Che cosa fanno?
«Hanno il master in sistemi esperti o altro. Sono ingegneri capaci di acquisire informazioni sul pubblico. La grande forza di Amazon è nella costruzione di algoritmi che ti raccontano un sacco di cose sui consumatori. Il nuovo paradigma digitale è tutto dalla parte della domanda, e le case editrici devono imparare questo nuovo linguaggio».
Ma questo non è in contrasto con quanto diceva prima sul ruolo dell’editore?
«No, non vedo contrasto. Bisogna mettere insieme il nuovo paradigma della domanda con quello tradizionale dell’offerta. Un mondo editoriale fondato solo sulla domanda ha molti difetti. E l’editore non deve rinunciare alla sua funzione di Filottete».
Quest’attività di ricerca è stata esercitata da pochi. Anche in Italia abbiamo assistito a quel fenomeno che Olivier Nora, presidente di Grasset e Fayard, ha definito “mediatizzazione dell’editoria”. Qui vicino a noi c’è il cartone a figura intera della brava e simpatica Dandini, campionessa di incassi.
«Intanto il libro di Serena è bello. E poi, se fai l’editore generalista, è inevitabile che accada questo. L’attività di ricerca si equilibra con buoni libri di intrattenimento».
A proposito di bestseller, circola voce che Stefano Magagnoli, l’editor che guidò il successo di Dan Brown, sia stato allontanato dalla Rcs.
«No, non è così. Rimarrà nel gruppo e cercheremo di sfruttare al meglio le sue risorse».
Non crede che all’origine della grande crisi del mercato librario sia anche un’iperproduzione di libri inutili?
«C’è un sacco di fuffa in giro, ma è molto difficile dire dove cominci la responsabilità dell’editore. Se stai in un mercato che descresce, la tua crescita è legata a una regola cannibalica, ossia devi rubare un pezzo del mercato di un altro. Questo fa sì che ci sia stata una proliferazione di scommesse. Non sono nella varia? Comincio a fare la varia. Una quota di produzione degli editori è equiparabile a un investimento in biglietti della lotteria. Tu puoi pensare che pubblicare più titoli in quella quota ti permetta di investire meglio negli autori migliori. È una regola di mercato».
Ma il calo delle vendite non induce a pensare che quella regola sia entrata in crisi?
«Bisogna ripensarla. Meno biglietti della lotteria e più qualità ».
A Torino tutti i grandi gruppi – in opposizione ad Amazon – hanno invocato la qualità dei contenuti. Nora su Repubblica ha sostenuto che i primi a distruggere i contenuti sono stati gli editori.
«Beh, io sono meno moralista. Penso che tanti contenuti anche corrivi abbiano aiutato il sistema a sopravvivere. Non bisogna dimenticare che l’editoria è una piramide al cui vertice sono i libri di qualità e alla base c’è l’editoria di intrattenimento. Più stretta è la base e più stretto sarà il vertice. Qualcosa di buono gli editori italiani avranno pur fatto se poi negli ultimi vent’anni è cresciuto il numero dei lettori».
Ma non abbastanza.
«Oggi c’è un altro problema che è quello del tempo a disposizione per la lettura. Ho un mio personalissimo metodo di indagine di mercato che è la metropolitana di New York. Dieci anni fa erano tutti col libro in mano. Quattro anni fa leggevano su kindle ed e-reader. La settimana scorsa avevano tutti un tablet, ma la metà di loro stava ammazzando mostricciatoli o percorrendo labirinti».
In altre parole, il libro potrà inventarsi nuove forme ma non potrà mai competere sullo stesso terreno del videogioco.
«La sua straordinaria specificità implica una regola quasi monastica, la scoperta che il lettore fa del proprio mondo interiore attraverso la decrittazione di segni grafici. Se perde questa specificità , sì, è davvero finita».
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