«Abbiamo un debito sociale verso i nostri migranti»

by Editore | 15 Maggio 2012 7:35

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Lo abbiamo incontrato a Roma, nella sede di Rifondazione comunista. Francisco Hagà³ conosce bene la vita del migrante per averla sperimentata in prima persona. «A ventun anni – dice – sono andato negli Stati uniti. Ho fatto tutti i mestieri, soprattutto operaio e scaricatore. Ho sofferto il razzismo, l’esclusione e la disoccupazione». 
Quando perde il lavoro, approfitta degli ammortizzatori sociali per tornare a studiare. È bravo e ottiene una borsa di studio. «Appena sono riuscito a mettere un piede nell’università  – dice ancora – ho colto l’opportunità  che mi si offriva. Mi sono laureato e in seguito ho lavorato per la Banca interamericana di sviluppo». Quando Rafael Correa s’insedia alla presidenza dell’Ecuador, il 15 gennaio del 2007, Hagà³ si mette a disposizione: «La costituzione del 2008 – spiega – prevede ampi spazi per la tutela dei nostri migranti e degli immigrati che vengono da noi. In parlamento siedono sei loro rappresentanti: due per il Sudamerica, due per Stati uniti e Canada, due per l’Europa. Io sono uno di questi. Prima, lo stato considerava gli immigrati solo per le rimesse che inviavano in patria. Oggi, riconosciamo il debito sociale che abbiamo nei loro confronti e lavoriamo per garantire i loro diritti, all’estero e in patria. La globalizzazione potrebbe offrire opportunità  per tutti, invece tutela solo la libera circolazione del denaro e delle merci. Noi vorremmo che potessero viaggiare liberamente anche le persone». 
Un orientamento che il governo esprime «all’interno degli organismi di cooperazione solidale come l’Alba, l’Alleanza bolivariana per i popoli della nostra America, negli spazi di confronto all’interno della Celac, la Comunità  degli stati latinoamericani e caraibici, o di Unasur, l’Unione delle nazioni sudamericane». Secondo i dati del ministro, molti immigrati tornano in patria, soprattutto dall’Europa, in particolare dalla Spagna: «In primo luogo per via della crisi – precisa il ministro – ma anche per le condizioni favorevoli che oggi trovano ad accoglierli nel nostro paese. Sanno che lo stato li sostiene, all’estero e in patria, e riconosce il loro contributo. Per garantirne i diritti, sul piano lavorativo e delle coperture sociali, abbiamo incontrato i rappresentanti dei governi europei e, in Italia, la Cgil. Dal 2006 a oggi, c’è stata d’altronde una notevole diminuzione del flusso di immigrati, che hanno meno necessità  economica di lasciare il paese». 
Non tutto, però, scivola sul velluto, nel governo Correa, incalzato da quegli stessi movimenti indigeni che ne avevano favorito l’elezione, o dal barricadero sindacato dei maestri, Confemec. La Confederazione delle nazionalità  indigene (Conaie), la più importante organizzazione di nativi del paese, dall’8 marzo ha organizzato una marcia di protesta che si è conclusa nella capitale Quito, il 22. Era partita da Zamora, località  limitrofa al sito di un nuovo giacimento minerario, il progetto Mirador, che lo stato ha dato in gestione a un’impresa cinese per l’estrazione del rame (la Ecsa). Secondo le organizzazioni native – circa 4.000 persone hanno manifestato il 22 marzo – il progetto potrebbe portare inquinamento ed espulsione delle comunità  locali. 
Hagà³ sostiene invece che l’avanzatissima costituzione dell’Ecuador vigila sull’impatto ambientale, che «non può superare il 5%». E infatti, «i cittadini lo hanno capito, partecipando a una manifestazione di sostegno al governo che ha riunito 50.000 persone. Siamo un paese piccolo – afferma il ministro – ma abbiamo alzato la voce contro il debito estero, destinando al benessere delle comunità  quei soldi che altrimenti sarebbero andati alle grandi istituzioni internazionali. Abbiamo imposto alle multinazionali forti tasse per lo sfruttamento delle nostre risorse. I risultati sono visibili. Certi gruppi vogliono solo comparire sui media cavalcando proteste minoritarie». Il governo ha comunque aperto un tavolo di trattativa permanente per evitare pericolose fratture che potrebbero portare guai. Furono proprio le proteste delle comunità  indigene a far cadere i precedenti governi.

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