L’arte sottile della rinuncia

by Editore | 24 Maggio 2012 5:55

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Esistono personaggi letterari capaci di tramutarsi in simboli, modelli, paradigmi, secondo ciò che la retorica chiama “antonomasia”: un nome proprio per un nome comune. Il dubbio, allora, diventa “amletico”, la pigrizia “oblomoviana”, l’illusione “donchisciottesca”. E quale personaggio incarnerà  l’astensione, la rinuncia, la protesta passiva? C’è un’unica risposta, affidata a un capolavoro di Herman Melville tanto esile e scarno, quanto maestoso e possente è Moby Dick. Si tratta di Bartelby lo scrivano, il racconto del 1853 in cui l’omonimo protagonista, assunto in uno studio legale, ribatte alle richieste del suo principale con una laconica risposta: «I would prefer not to». 
Inutile cercare di renderla con “Preferirei di no”, poiché, ha notato Gilles Deleuze, la sua agrammaticalità  la fa sembrare una cattiva traduzione da una lingua straniera, o una sorta di “apriti Sesamo” (benché sarebbe meglio dire “chiuditi Sesamo”). Certo è che siamo di fronte a una formula magica. Infatti, le parole con cui Bartelby respinge dieci volte gli inviti dell’avvocato, hanno stregato la critica. E proprio in forza di tale estraneità , la frase esprime lo spirito dell’eroe. Escluso da ogni legame sociale, egli assomiglia al Monsieur Teste di Valéry o allo Scapolo di Franz Kafka, l’Ulisse dei tempi moderni che grida al suo nemico: «Io sono Nessuno!» 
Tuttavia la riflessione di Deleuze va oltre, per coinvolgere il destino della letteratura moderna: «L’atto fondatore del romanzo americano, come di quello russo, è stato quello di […] dar vita a personaggi che si mantengono nel nulla, sopravvivono solo nel vuoto, e custodiscono fino alla fine il loro mistero sfidando logica e psicologia». In modo analogo, un altro filosofo, Giorgio Agamben, ha delineato una genealogia dello scriba, in quanto ciò che distingue quest’ultimo da uno scrittore, è il fatto di rinunciare alla propria scrittura per porsi al servizio di quella altrui. Così troviamo riuniti il protagonista delle Anime morte di Gogol e i due di Bouvard e Pécuchet di Flaubert, il Simon Tanner di Robert Walser e il principe Myskin dell’Idiota di Dostoevskij. Come se non bastasse, Agamben riporta il parere di alcuni esegeti, secondo cui Bartleby alluderebbe addirittura alla figura di Cristo. E qui torniamo a quell’idea di rinuncia e protesta accennata all’inizio. 
Fra tanti interpreti di Melville, però, il più fedele resta Enrique Vila-Matas con Bartelby e compagnia, dove si narra di un impiegato che conduce una curiosa ricerca: «Già  da parecchio tempo indago sull’ampio spettro della sindrome di Bartleby in letteratura […] la pulsione negativa o l’attrazione per il nulla che fa sì che certi creatori, pur avendo una coscienza letteraria molto esigente (o forse proprio per questo), finiscano per non scrivere nulla; oppure scrivano uno o due libri e poi rinuncino alla scrittura; oppure ancora, dopo aver avviato senza problemi un work in progress si ritrovino un giorno letteralmente paralizzati per sempre». 
In compagnia di Bartelby, Vila-Matas colloca i “folli” Walser, Hà¶lderlin, Maupassant, insieme ad autori celeberrimi, ma vissuti sempre dietro le quinte, quali Salinger e Pynchon. Da qui la conclusione: «Esistono tanti modi di abbandonare la letteratura quanti sono gli scrittori». Insomma, non sembra esagerato scorgere in Bartleby l’emblema dell’uomo che si astiene, e ricusa la Legge impostagli, magari, perché no?, in vista di un’altra Legge: un Socrate in prigione, o un Gandhi metafisico.

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