La vittoria di Chen l’avvocato degli ultimi che fa tremare Pechino

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«Vorrei baciarla». L’ultimo desiderio di Chen Guancheng, se pure frutto di un equivoco di traduzione, non è stato esaudito. La sua felicità  semplice, espressa al telefono a Hillary Clinton mentre l’ambasciatore Usa Gary Locke lo stava accompagnando in una clinica del centro di Pechino, tradisce però l’emozione di un momento storico. Uno dei dissidenti-simbolo della Cina, fuggito dieci giorni fa da arresti domiciliari illegali e rifugiato nell’ambasciata americana, ha vinto la sua prima battaglia. Il governo cinese ha dovuto riconoscere che è un uomo libero ed è stato costretto a concedere diritti e protezione a lui e alla sua famiglia. 
E’ la prima volta che le autorità  di Pechino ammettono abusi e repressione contro i dissidenti politici. La prima che vede i leader del partito comunista cedere e accettare una soluzione invocata dal resto della comunità  internazionale. La liberazione dell’avvocato-cieco, condannato e torturato per aver difeso le donne costrette ad aborti forzati, se confermata segna una tappa fondamentale nella lotta per i diritti umani nella seconda economia del mondo. Nell’anno della transizione del potere, prevista in autunno sia a Pechino che a Washington, l’epilogo della fuga-beffa costituisce però un pericoloso momento di rottura nei rapporti tra Cina e Stati Uniti. E quando nella capitale cinese era quasi l’alba, la riconsegna di Chen Guangcheng si è velata di un nuovo, inquietante mistero. Il fuggitivo sarebbe stato convinto a rinunciare alla richiesta di asilo politico negli Usa dopo aver saputo da qualcuno che la moglie altrimenti sarebbe stata picchiata a morte. L’ultimo sacrifico, per «sottrarre i suoi cari alla vendetta del regime». A denunciarlo, il dissidente Zeng Jinyan. Ma lo stesso Chen, in una telefonata all’agenzia di stampa Associated Press e alla Cnn, ha confermato di «essersi trovato solo in ospedale» e di temere ora «per la vita di tutti i miei cari». «Mi sento deluso e abbandonato dagli Usa – avrebbe anche detto – ho paura e voglio lasciare la Cina». 
Una denuncia imbarazzante, per l’amministrazione Obama, passata in poche ore dal trionfo diplomatico al ruolo di ipocrita strumento di una trappola. Anche Pechino ha alzato la voce con Washington, censurando l’ospitalità  concessa al fuggitivo da giovedì e pretendendo «scuse formali». Toni e rabbia senza precedenti, almeno dalla strage di piazza Tiananmen: il prezzo diplomatico da pagare per salvare la faccia, non aprire un conflitto ufficiale con la Casa Bianca e dover cancellare l’annuale vertice economico-strategico Cina-Usa, al via oggi nella capitale in un clima da Guerra Fredda. Il giorno cruciale di Chen Guangcheng, eletto su Twitter «eroe di tutti i dissidenti cinesi che soffrono senza un nome e nel buio» è stato un passaggio drammatico ed alta tensione. 
Dopo oltre una settimana di preoccupante silenzio diplomatico, sia in Cina che negli Usa, la guerra di nervi si è sbloccata quando il summit sinoamericano sembrava saltato. Impossibile trattare dossier internazionali con un dissidente nascosto dalla diplomazia della controparte. L’ambasciatore americano Locke, giustificata l’accoglienza per «ragioni umanitarie», ha scortato Chen Guangcheng nell’ospedale del quartiere Chaoyang. Il dissidente, ferito per aver saltato il muro di casa che nello Shandong lo isolava dal mondo, è stato curato e ha potuto riabbracciare la moglie e i due figli. Mentre l’uomo che ha fatto vacillare le faticose intese Cina-Usa sui dossier più caldi tornava in libertà , è iniziato lo scontro Pechino-Washington. Il ministero degli esteri cinese ha accusato gli Usa di aver «accolto in maniera irregolare» il fuggitivo, esprimendo «assoluta insoddisfazione». 
La Cina ha definito l’ospitalità  «un’interferenza inaccettabile», ha ammonito l’ambasciata americana dal non intraprendere più «attività  non conformi alle sue funzioni» e ha preteso «scuse formali». Gelida la risposta Usa. La Casa Bianca ha detto che «non sarà  presentata alcuna scusa», concedendo solo che «simili incidenti non si ripeteranno» e lasciando intendere una partecipazione attiva nella fuga di Chen. Ha infine rotto il silenzio il sottosegretario di stato Hillary Clinton, atterrata a Pechino con un giorno di anticipo. «Abbiamo trattato il caso in modo consono ai nostri valori – ha detto – e siamo impegnati a fare in modo che la Cina mantenga gli impegni negli anni a venire». Condizioni che per Pechino sono uno smacco: garantire incolumità  e piena libertà  a Chen Guangcheng e alla sua famiglia, curarlo, mettergli a disposizione «un luogo sicuro e la possibilità  di proseguire gli studi all’università », consentendo un monitoraggio Usa. Un braccio di ferro ad alto rischio, risolto da pragmatiche considerazioni d’immagine sia nella Città  Proibita che alla Casa Bianca. La prima non poteva riaprire l’imbarazzante fase degli asili politici negli Usa, chiusa nel 1989. La seconda non poteva esporsi alle critiche interne e repubblicane, abbandonando un dissidente cinese mentre Barack Obama, che ha garantito un proprio appello pubblico, è in campagna elettorale. Rimangono ora un’incognita il futuro reale di Chen Guangcheng, quando i riflettori saranno spenti, quello dei suoi famigliari e dei dissidenti arrestati in questi giorni, o in carcere da anni. L’ultima battaglia di Chen, uno scandalo che scotta, soprattutto per i democratici di Obama: e che nemmeno il vertice Cina-Usa di oggi, salvato nel nome del business, avrà  il coraggio di affrontare.


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