by Editore | 10 Maggio 2012 10:06
Erano da poco passate le tre del pomeriggio di domenica scorsa nel villaggio yemenita di Shabwah, quando Fahd Mohammed al-Quso parcheggò la sua Toyota verde, tentò di aprire la portiera e si dissolse in una vampata di fuoco. La “talpa” lo aveva ucciso. Fhad, uno dei dieci terroristi islamici più sanguinari e più ricercati dal 200, è stato disintegrato da un missile americano, ma chi lo aveva guidato era stata la spia venuta dal deserto. Era stato l’agente dei servizi segreti sauditi, colui che è riuscito a sventare il massacro delle “mutande esplosive”. E a indicare dove e come si muovessero i capi delle cellule jihadiste nello Yemen fino all’appuntamento con il drone, con l’aereo telecomandato, che lo ha inquadrato e polverizzato.
Di lui, di quest’uomo che oggi è al sicuro in qualche località segreta nella Penisola Araba, non sappiamo nulla, se non che ha salvato probabilmente la vita a centinaia di turisti e viaggiatori su un jumbo jet in volo verso l’America e che deve avere nervi e coraggio di acciaio temperato. Per anni, agli ordini del Servizio Segreto di sua maestà il re saudita, aveva lavorato all’interno della peggiore, più virulenta e irriducibile metastasi di Al Qaeda, la succursale yemenita chiamata Aqap, “Al Qaeda Arabian Peninsula”. Sotto gli occhi dei superiori e dei militanti, nell’atmosfera arroventata di fanatismo, di segretezza e di paranoia nella quale si muovono sempre le cellule terroristiche, la “talpa” era riuscita a evitare quei sospetti che certamente lo avrebbero prima torturato e poi sgozzato.
Ogni giorno a contatto con i capi e con luogotenenti di Aqap, l’uomo era riuscito a evitare sia la cattura da parte della polizia yemenita, che marca da vicino e conduce processi sommari ai membri e ai simpatizzanti di Al Qaeda, sia a conquistare la fiducia di personaggi come Fahd al-Quso, di fatto il leader del gruppo e il responsabile delle “operazione esterne”, cioè dei massacri e degli attentati.
La prova finale della sua completa adesione al gruppo e alla sua mistica assassina era arrivata quando si era offerto per la prova suprema, per il “martirio” da shahid contro l’odiata America, sempre la fissazione immutabile dei fondamentalisti. Avrebbe indossato lui quella nuova arma di distruzione di massa, quella nuovissima “mutanda esplosiva” fabbricata senza usare metalli, per sfuggire ai detector negli aeroporti.
Non deve essere evidentemente così facile trovare giovani disposti a farsi esplodere su un jet a 11mila metri di quota, se lui, recluta, fu approvato e scelto per questa operazione. Fu messo in contatto con l’artificiere supremo del gruppo, quell’Ibrahim Hassan al-Asiri che da almeno dieci anni instancabilmente lavora per concepire e produrre esplosivi che gli assassini possano indossare sfuggendo ai controlli. Asiri aveva già tentato, il giorno del Natale cristiano del 2009 di dimostrare la propria abilità quando aveva fabbricato un altro indumento carico di C4, l’alto esplosivo militare, per il nigeriano Umar Farouk Abdulmutallab. Ma la bomba, forse per un difetto di fabbricazione o forse per la fausta inettitudine di Abdulmutallab, non era detonata. E duecentocinquanta passeggeri, fra cui sedici bambini sotto i dieci anni, erano potuti atterrare a Detroit senza danni.
È stato nel momento in cui l’artificiere della guerra santa ha consegnato al nostro uomo il mutandone farcito di C4 che la “talpa” ha vissuto le ore più angosciose. È sempre il momento del contatto con i propri superiori quello del massimo rischio per gli agenti infiltrati, quando sono più vulnerabili e scoperti. Ma non soltanto è riuscito a farlo senza sollevare i sospetti dei suoi complici. Ha comunicato tutte le coordinate del percorso che lo avrebbe dovuto portare da Aden verso un aeroporto europeo e poi sopra l’Atlantico fino alle coste degli Stati Uniti per farsi esplodere e polverizzare il jet. Assicurandosi di essere già sopra il continente, per garantire che fossero trovati i resti dei corpi e i rottami, e ottenere il massimo effetto di terrore.
Da quel momento, i servizi sauditi e la Cia, che in quella regione ha una base per il lancio dei droni, gli aerei senza pilota, triplicati nel numero da Obama dalla fine dello scorso anno, hanno seguito tutti gli spostamenti dell’agente con l’esplosivo, sembra fino a un aeroporto europeo dove hanno preso in consegna l’ordigno, che oggi è nelle mani degli specialisti della Cia e dello Fbi a Quantico, in Virginia e la spia è tornata a Ryad, in Arabia Saudita. Ma non era il solo. In quelle tane. Nella cellula di Aqap i servizi sauditi stanno infiltrando e hanno introdotto altri doppiogiochisti o almeno così fanno sapere, mentre Washington ha ricominciato a inviare nello Yemen istruttori per i controspionaggi e i servizi di sicurezza.
Può, naturalmente, non essere vero, perché nel gioco oscuro dello spionaggio e del terrore, il vero e il falso sono spesso gemelli identici, facce opposte della stessa realtà .
La sola certezza è che il disumano coraggio di quell’agente ha salvato vite umane e che il lavorio del terrorismo continua, frugando alla ricerca di strumenti per aggirare controlli e uccidere. Bastano pochi uomini, ne basta a volte uno per fare stragi come per evitarle e ora l’incubo dei servizi segreti sono quei 20mila missili antiaerei portatili Stinger venduti a Gheddafi e scomparsi dopo la dissoluzione del suo regime. Dove sono finiti? Chi li ha in mano oggi? Come dicono le mamme, non si può mai stare tranquilli.
Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2012/05/la-spia-venuta-dal-deserto-che-rubo-i-segreti-di-al-qaeda/
Copyright ©2024 Diritti Globali unless otherwise noted.