La Serbia si divide tra filoeuropei e nazional-populisti

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C’è anche la Serbia chiamata a votare, in questa tornata elettorale europea che si estende dallo Schleswig Holstein tedesco ai Balcani profondi della Grecia. E lo fa con un vero e proprio big bang della politica, perché oggi si sceglieranno in contemporanea il presidente, il Parlamento, numerose amministrazioni locali e il governo della Vojvodina, la più ricca, multietnica e autonoma delle sue province. Tutto perché il presidente Boris Tadic, dimettendosi, ha voluto risparmiare — con un unico election day — un po’ di denaro pubblico in un Paese provato dalla crisi non meno di altri nell’Europa del sud.
Sarà , a semplificare molto, una partita a due proprio tra l’europeista Boris Tadic e il postpopulista Tomislav Nikolic. L’uomo che alla guida del partito progressista serbo (il Sns, che non necessariamente per il nome è un partito di sinistra, almeno sul modello europeo) ha ripulito quella forma di nazionalismo e populismo a tutela dei ceti più deboli che in Serbia è sempre andata forte. Anche se oggi Nikolic, a differenza di quel che diceva anni fa e di ciò che ancora pensa il suo mentore Vojislav Seselj processato all’Aia, è anche lui a favore dell’integrazione europea. 
Tadic, leader del partito democratico Ds, è favorito alle Presidenziali. Ma in questa sfida incrociata e doppia, il partito di Nikolic è dato in vantaggio alle parlamentari (33% contro 28%). Dovesse spuntarla al Parlamento, Nikolic difficilmente potrebbe insidiare Tadic al ballottaggio per la presidenza tra due settimane. Il rischio però è di un Paese bloccato, con la presidenza agli europeisti e un Parlamento, almeno simbolicamente, dominato dai «nazionalisti». La parola decisiva potrebbe quindi spettare ai postsocialisti di Ivica Dacic, gli eredi di Milosevic. Pragmatico e amato per il suo parlare ed agire netto (quando i kosovari arrestarono alcuni serbi, lui ministro dell’Interno per risposta arrestò alcuni albanesi), Dacic potrebbe confermarsi (l’improbabile) miglior alleato dell’europeista Tadic. 
Certo, a scorrere le liste presidenziali, c’è sempre un certo passato che ritorna. Jadranka Seselj, la moglie del tribuno della pulizia etnica Vojislav, unghie bordeaux e lunghi cappelli tinto-corvini, in lizza per gli ultranazionalisti. L’intramontabile Vojislav Kostunica. Ceda Jovanovic, l’attore che trattò la resa con Milosevic nella lunga notte del 30 marzo 2001, l’unico pronto a cedere il Kosovo. Più che protagonisti, comparse. 
Il voto è tutto sull’economia. Non potrebbe essere altrimenti quando i disoccupati sono il 24%, e il 40% del Pil lo produce l’economia in nero. E anche se la Fiat investe e i cinesi stanno costruendo il secondo ponte sul Danubio a Belgrado, la crisi morde. A marzo i pensionati erano più degli occupati. Secondo un recente sondaggio, l’80% dei serbi è deluso o arrabbiato, il 77% non ha speranze, il 60% è semplicemente depresso. L’Unione Europea? Accettabile per i più, ma non è che questo risollevi un Paese.
Vota anche il Kosovo. Almeno quella provincia del Nord, dove l’Osce è riuscita dopo le iniziali resistenze di Pristina a organizzare i seggi. Cinquantamila persone, legati da storia, politica, soldi alla madrepatria. La Nato fa appelli alla calma. Ma non votano gli altri 80mila serbi sparsi nelle enclave, dati per persi con questo voto anche da Belgrado. E però, se il Kosovo condiziona tutta la politica estera e perfino le prospettive di Belgrado (come un tempo avevano fatto Milosevic e i criminali di guerra latitanti) in questa campagna elettorale quella regione torna a essere, se non dimenticata, almeno marginale.


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