La questione sociale conta più della politologia
Come se in questi pesantissimi anni non ci fossero stati partiti al governo che si sono serviti del Parlamento come di un propria fortezza personale, mentre altre forze politiche sono state costrette una dura opposizione per cercare di fare sentire la propria voce in una situazione di eccezionale difficoltà .
È una tecnica antica che, in quanto tale, non stupisce: nei momenti di maggiore difficoltà le classi dominanti e i loro corifei, consapevoli e inconsapevoli cercano di mettere in uno stesso fascio governanti e governati, indiscriminatamente. È la stessa tecnica che usano nel loro lavoro gli «storici» che a loro fanno capo: mettono nello stesso fascio persecutori e perseguitati, vittime e carnefici, sconfitti e vincitori.
Bisogna reagire a questa impostazione e anzitutto bisogna reagire alla concezione dei partiti che queste posizioni presuppongono: come se si trattasse di «sabbia senza acqua», e non di organismi che nascono, vivono e muoiono nel vivo della vita, e della lotta sociale di cui, in vari modi e a diversi livelli, sono, e restano, espressione. Ma questa impostazione non è casuale, anzi: essa si inserisce in un quadro concettuale, e ideologico, che tende a cancellare dalla scena la dimensione sociale, la questione sociale, togliendosi in questo modo la possibilità di capire cosa è accaduto in Italia nell’ultimo decennio e cosa è necessario fare oggi.
Forse è bene ricordarlo: il berlusconismo non è stato solamente il dominio delle fiction e il sistematico rovesciamento del rapporto tra immaginazione e realtà . È stato l’espressione di un potente, robusto, flessibile sistema sociale nel quale si sono riconosciute e organizzate le classi dominanti del nostro Paese. «Se perde perde lui, se vince vinciamo noi», disse nel 1994 il più autorevole rappresentante del potere capitalistico nel nostro Paese, delineando la strada che avrebbe percorso in quasi un ventennio. Oggi è quel sistema, per ragioni interne e internazionali, che si sta disgregando e scomponendo, ed è in questo quadro che vanno situati il disfacimento in atto del Pdl e anche la crisi della Lega.
È un passaggio importante e delicatissimo: il berlusconismo ha generato un modello culturale e politico e sociale che ha inciso profondamente nella costituzione interiore del Paese, imponendo modelli antropologici imperniati su un individualismo selvaggio e la rottura delle reti di solidarietà che avevano caratterizzato a lungo la nostra società . È stato un processo duro che ha mutato, per molti aspetti il volto del Paese, e che ha avuto un altissimo costo sociale, come si è visto nel precipitare della crisi nell’ultimo anno. Essa si è abbattuta, creando solitudine e anche disperazione, sui più deboli, sui più esposti, su quelli che avevano già pagato il prezzo più alto: sui giovani, sulle donne, sul mondo del lavoro, mai così umiliato e tartassato come in questa lunga crisi in nome della modernizzazione, della delocalizzazione, della fine del conflitto tra capitale e lavoro.
In Italia conviene dirlo con forza – oggi è aperta una dirompente questione sociale, ed è in questo quadro che va compreso anche il risultato di Grillo: fatti che esprimono un disagio sociale profondissimo, intriso di vecchie e nuove solitudini, di ansia, di paure, di angoscia da cui può scaturire un incancrenirsi della crisi della nostra stessa democrazia.
È anche una nostra responsabilità delle forze democratiche e di sinistra se le cose sono arrivate a questo punto, e se la crisi sociale ha assunto i caratteri e la forma dell’antipolitica. Ma l’antipolitica non è un destino obbligato. Si può cercare di percorrere un’altra strada. E per questo la politica è, e resta indispensabile. Ma se si vuol ridare dignità , e legittimità , alla politica, è dalla questione sociale che bisogna partire, e non solo in Italia, anche in Europa. Bisogna riuscire a voltare pagina, con iniziative concrete se si vuole avviare a una soluzione la lunga crisi italiana: il tempo delle parole, e delle retoriche deprecazioni, è finito.
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