La parola ridotta a suono al di là del senso
L’époque des traumatismes è la definizione che, nel 2002, Colette Soler dava del momento storico con il quale, tuttora, ci troviamo a fare i conti: magia, religione e scienza – le tre grandi narrazioni simboliche che Ernesto De Martino aveva identificato come strumenti di significazione dell’esperienza – non ci proteggono più dall’urto shoccante del reale che, quando si presenta sulla scena sotto forma di evento imprevisto (violento o meno, poco importa), non trova un contesto significante capace di inserirlo in un discorso e di attenuarne, di conseguenza, la portata perturbante e angosciosa.
La frantumazione delle grandi ideologie che avevano orientato l’esistenza degli uomini consegna il cittadino globalizzato all’impossibilità di attribuire un senso ai fatti che sfuggono alla sua capacità di controllo: non più proiettabili su un piano trascendente in grado di ridurre la loro brutale e ingiustificata apparizione, gli accadimenti problematici della vita si rivelano, dunque, come potenziali agenti traumatici che scuotono e minano il fragile equilibrio psichico della comunità umana. È così, allora, che all’interno delle scienze umane – prima fra tutte, ahimè, la psicologia – la questione del trauma è divenuta centrale. In un mondo che proclama il diritto alla felicità per ognuno, infatti, ogni minaccia al progetto edonistico va considerata come un insopportabile insulto che reclama un immediato (e sempre possibile) risarcimento. Il presupposto che anima tale convulsione contemporanea alla utopistica sterilizzazione dell’esistenza (all’eliminazione, cioè, di ogni disturbo) è che il trauma sia un evento esterno al soggetto, un incidente fortuito (pertanto, evitabile): una sorta di offesa che deve (e può) essere cancellata il prima possibile. Ma questo presupposto ignora un dato fondamentale che la psicoanalisi mette, al contrario, in primo piano. Il trauma, nella prospettiva teorica inaugurata da Sigmund Freud, è costitutivo dell’essere umano, il cui stesso venire al mondo si compie all’insegna di uno shock (l’ingresso in un ambiente ‘altro’) che non potrà mai essere riassorbito del tutto.
Ma il vero trauma, come insegna Jacques Lacan, il trauma originario, il trauma che marchia irreversibilmente il vivente non è quello della nascita o della separazione dalla nutrice (come, in parte, il padre della psicoanalisi aveva lasciato intendere) ma l’incontro con il linguaggio. È questa la tesi che Alex Pagliardini coraggiosamente riprende dallo psicoanalista parigino nel suo Jacques Lacan e il trauma del linguaggio (Galaad edizioni) per espanderla in tutte le sue possibili significazioni e conseguenze.
L’incontro con il linguaggio è l’esperienza che inaugura l’essere umano in quanto tale. Un incontro che, a ben vedere, è nell’ordine della necessità , in quanto è al suo interno che, immancabilmente, il neonato viene alla luce, immerso, sin dal momento del suo concepimento, in una rete significante che lo attende. Il linguaggio, si potrebbe dire, è la condizione che umanizza il vivente: è il linguaggio, infatti, a definire la particolarità di quell’animale che si distingue da tutti gli altri per la sua capacità di nominare le cose – di uccidere la Cosa, direbbe Hegel – e di far esistere l’oggetto (trasformato in significante) anche nel tempo della sua assenza.
Ma se per un verso il linguaggio dona al vivente la possibilità di dare un senso alla propria esistenza (iscrivendolo in un sistema simbolico nel quale egli può prendere il suo posto e rappresentarsi nel mondo attraverso i significanti messi a sua disposizione – primo fra tutti, il nome proprio) dall’altro lo spossessa del suo essere, lo snatura, ne causa una perdita strutturale in termini di identità e di istinto. Il contatto ustionante con il linguaggio è un gesto di traduzione-cancellatura – ci spiega Pagliardini – che abolisce da sempre il dato naturale dell’umano: scava, cioè, nell’essere vivente una mancanza di essere (manque-à -àªtre, la definisce Lacan) intorno alla quale, tuttavia, si rapprenderà il nucleo fondativo della soggettività . Il linguaggio, peraltro, incide il corpo, circoscrive distretti corporei nei quali si andrà a localizzare la pulsione (si pensi, giusto per declinare empiricamente la questione, alle pratiche educative che richiedono progressivamente al bambino di controllare l’attività di quelle parti del suo corpo che diverranno, proprio in virtù di tale intervento, le famose zone erogene).
Lo snaturamento del vivente, la perdita di essere, la pietrificazione del soggetto, l’irruzione della pulsione, il legame – e la conseguente dipendenza – con l’altro, sono forme nelle quali si esplicita l’aspetto traumatico del linguaggio. L’originalità e il pregio del lavoro di Pagliardini sta soprattutto nell’attenzione che pone, nell’ultima parte del libro, al fatto che lo stesso linguaggio, cui siamo abituati a pensare come uno strumento di relazione e di comunicazione con l’altro, contiene un nucleo antidialettico, chiuso allo scambio, espressione di un reale che mormora, che risuona al di là di ogni possibile significazione. Un linguaggio che funziona come lingua autistica, come un ronzio indistinto, come «catena simbolica ridotta al rumore che fa» (così ne parla Jacques-Alain Miller), suono senza senso, «ammasso di materiale che chiacchiera da solo».
Ciò che fa trauma, in questa nuova dimensione del linguaggio (dimensione che Lacan aveva definito lalangue), è l’irruzione di un godimento che rinvia alla pulsione di morte, intesa come eccesso di vita («vita immortale, vita incontenibile… indistruttibile») che si disinteressa del benessere del soggetto e del legame sociale. Trauma, dunque, come impossibilità – per certi versi irriducibile – di essere con l’altro.
Il linguaggio, si potrebbe concludere, traumatizza nella misura in cui obbliga il soggetto alla dipendenza dall’altro e, contemporaneamente, lo pietrifica in un isolamento autistico dal quale non può mai definitivamente emanciparsi. Una apparente contraddizione che lo psicoanalista, abituato ad avere a che fare con la parola, conosce assai bene.
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