by Editore | 22 Maggio 2012 7:27
New york – Ma come: non l’avevamo fatto santo subito? Non l’avevamo elevato a santo della scienza, eroe dell’umanità tecnologica, profeta del design, genio del marketing? Poi scorri I segreti di Apple di Adam Lashinsky (Sperling & Kupfer), firma di Fortune e storico cronista della Silicon Valley, e scopri che sotto la buccia luccicante la Mela nasconde un’altra verità . Steve Jobs non era un santo. E anzi «la brutalità con cui trattava i subordinati ha legittimato dentro Apple una cultura aziendale spaventosamente esigente, intimidatoria e dura»: dando vita a un compagnia «fondata su paura e soprusi» che «la sua paranoia aveva reso segreta come la Cia». Sì, «Steven Paul Jobs ha davvero cambiato il mondo» ammette Lashinsky: «Ma il suo stile fu tutto un rifiuto della concezione dominante del capo di azienda».
Scusi, Lashinsky, ma com’ha potuto alzare il velo proprio mentre Jobs era così malato: facendo fra l’altro uscire il libro subito dopo la morte?
«Apple ha sempre fatto di tutto perché la gente pensasse alla compagnia come a qualcosa di magico. Io sono un giornalista di business e scrivo di business. Era il business che mi interessava: Jobs malato o meno. Anzi: dal mio punto di vista la salute non era così importante».
Però vorrà pure dire qualcosa che i primi articoli critici su Apple siano usciti solo dopo la sua morte: perfino le inchieste sugli operai-schiavi in Cina.
«Se lo sono chiesti in tanti: con Jobs ancora vivo il New York Times avrebbe pubblicato quegli articoli? Beh, la mia prima inchiesta su Apple risale al 2008. Era un profilo di quello che sarebbe diventato l’erede, Tim Cook. E l’azienda non voleva che uscisse. Il mio collega Peter Elkind stava lavorando a un’inchiesta sulle stock options di Jobs: stesso problema. Così a Fortune decidemmo che non saremmo rimasti lì ad aspettare Apple per scrivere le storie che volevamo scrivere».
Nessuna intimidazione?
«Ma sì che nei media c’era il timore di ritrovarsi contro Steve Jobs. Però Apple non era ancora diventata la compagnia che è diventata: la più grande del mondo. Di queste storie i media avrebbero finito per trattare comunque: qualunque fosse stata la salute di Jobs».
Lei scrive che i manager Apple trascorrevano mesi a controllare i prodotti nelle fabbriche in Cina: Jobs sapeva degli operai-schiavi?
«Posso dire che Tim Cook sapeva: sapeva personalmente. Ma credo anche che i manager pensavano che le condizioni fossero sufficientemente buone – o comunque meglio di come sarebbero state senza Apple lì».
Ma lei dimostra che Jobs era il padre-padrone che controllava di tutto: dai disegni al prodotto finale. Come poteva non sapere?
«C’erano comunque questioni – le fabbriche, gli approvvigionamenti – che delegava a Cook».
Proprio Cook s’è trovato a gestire lo scandalo: ha coinvolto i sindacati, ammesso responsabilità . Primo banco di prova nel dopo-Jobs: che voto gli dà ?
«Direi B meno (sette meno meno, n.d.r.). Ha saputo reagire subito. Ma anche in questo caso non è che Apple abbia dato tante risposte».
Lei scrive: Cook ha sempre saputo di essere il ragazzo col basso, lì sul palco, mentre la rockstar era Jobs. Diventerà mai rockstar?
«Direi di no. Sarà , anzi lo è già , un capo fortissimo. Mettiamola così. Jobs è stato eccezionale nel promuovere il marchio Apple. Era un po’ il fenomeno da circo: “Guardatemi, guardatemi, guardatemi… Oh, e comunque: avrei questi prodotti da mostrarvi…”. Ecco, Cook oggi non ha bisogno di fare nulla per attirare l’attenzione su Apple».
A proposito di segretezza: basta un giro su Internet per scoprire che l’omosessualità di Tim Cook non è un segreto. Che problema ci sarebbe se facesse coming out?
«Nessuno. Non interessa agli investitori, non interessa ai dipendenti, non interessa ai consumatori. È solo gossip».
Ma non crede invece che la sessualità sia importante nel determinare il carattere di un capo? Come l’origine geografica, la cultura, l’esperienza. Lo scrive lei stesso descrivendo i due caratteri di Jobs e Cook: «Jobs aveva le sfumature mediorientali del padre biologico, Cook è il prototipo dell’americano del sud tutto squadrato».
«Chiariamo: io non ho assolutamente idea della sua sessualità . Però dal punto di vista del business trovo interessante che non abbia una famiglia, un hobby. Parliamo tanto del giusto equilibrio tra vita e lavoro: ecco, lui sembra tutto sbilanciato sul lavoro – condizione ottimale in una società così concentrata sugli obiettivi».
Dal carismatico Jobs al tenero Cook: e l’azienda fa boom. È la prova che per Apple c’è vita dopo Steve?
«Voglio fare l’avvocato del diavolo. Sì, forse è così. O forse Jobs ha dato così tanta carica a Apple che Apple vive ancora di quella carica».
Resta da chiedersi se senza Jobs continueremo a vedere prodotti innovativi come l’iPhone, l’iPod, l’iPad: l’iQualsiasicosa.
«La questione vera sarà scoprire se avranno ancora la stessa magia».
La magia si può tramandare?
«La magia non si impara. Ma quello che si può tramandare è la cultura di un’impresa. Ecco l’altra grandezza di Jobs il duro: saper dire di no. Quando i manager gli chiedevano di sviluppare i palmari che andavano di moda, lui disse di no. Quando spingevano per lanciare il tablet, lui mise i tablet da parte per concentrarsi sull’iPhone. Perché bisogna avere il coraggio di dire di no non solo alle idee che non sembrano buone: soprattutto a quelle che sembrano buone».
Ecco allora il segreto dell’iPhone: aveva già in nuce il concetto dell’iPad. Dal telefono al minicomputer.
«Non lo so. È un po’ la questione dell’uovo o la gallina. Certo è che dal punto di vista commerciale la decisione è stata vincente. La gente sapeva cosa fosse uno smartphone e Apple ha prodotto lo smartphone più innovativo al mondo: la gente non avrebbe saputo che farsene di un tablet. Ma con l’iPhone già fuori, per Apple è stato più facile lanciare il suo bell’iPad».
C’era un ragazzo che Steve Jobs aveva imparato ad apprezzare: Mark Zuckerberg. Che cosa gli ha insegnato?
«Facevano queste lunghe passeggiate a Palo Alto a parlare di leadership. Non so cosa gli abbia insegnato ma so che a 28 anni Zuckerberg è bravissimo a fare quello che Jobs sapeva fare benissimo: darsi un piano a lungo termine e inseguire solo quello».
Zuckerberg mostra anche lo stesso disinteresse nei confronti di Wall Street che aveva Jobs: è sceso in Borsa con riluttanza. Però Apple da vendere a Wall Street ha prodotti veri: computer, telefonini, presto tv. Facebook solo la sua piattaforma di amici.
«È vero che gli oggetti sono beni durevoli. Ma ormai Facebook è un brand. E la sua piattaforma è uno spazio editoriale».
Vuol dire uno spazio per pubblicare contenuti? Cioè notizie, pubblicità , canzoni, libri…
«Facebook è una piattaforma con cui gli utenti possono fare quello che vogliono: la questione è se sarà capace di rinnovarsi e continuare ad attrarre. In questo senso è come l’iPhone: che deve sempre rinnovarsi per attrarre. E per essere utile in un modo sempre diverso».
Insomma Steve Jobs non sarà stato un santo però davvero ha cambiato il mondo con quell’insegnamento che oggi raccoglie Mark Zuckerberg: innovare.
«L’insegnamento più grande è “focus”: concentrazione. Poi, certo, innovazione, chiarezza del messaggio, semplicità , anche durezza. Ma viene tutto da là . Focus è la parola d’ordine. Qualità molto rara nelle aziende. Ma soprattutto – come l’unicità di Jobs dimostra – in tutti noi».
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