LA MERAVIGLIOSA VITA DELLA PUNTEGGIATURA

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Un mio compagno di classe, alle scuole medie, scrivendo i temi ricorreva sempre alla medesima strategia: intrattenendo con l’interpunzione un legame fondato su sospetto e prudenza, disseminava il testo di microscopiche scorie bluastre (non a casaccio ma ricorrendo a un criterio talmente privato da risultare impenetrabile). Questo modo di procedere gli serviva a proteggersi dalle eventuali contestazioni che l’insegnante avrebbe potuto muovergli, chiarendo di volta in volta che non di punteggiatura si trattava bensì di macchioline tanto casuali quanto irrilevanti, accidentali sporcature d’inchiostro da imputare soltanto a una Bic difettosa.
Per trasformare il sospetto in fiducia, la prudenza in coscienza, a quel vecchio compagno di classe (una regola non scritta dell’aneddotica prevede che protagonista di situazioni vagamente cialtrone sia sempre un compagno di classe) sarebbe servito leggere Questo è il punto. Istruzioni per l’uso della punteggiatura (Laterza), un libro nel quale Francesca Serafini – italianista, saggista, sceneggiatrice per la televisione e per il cinema – riesce a raggiungere simultaneamente due obiettivi.
Il primo è quello di proporre un prontuario che nel descrivere la norma la assume criticamente, trascorrendo di continuo dalle regole alle eccezioni d’autore, intendendo queste non come un arrembaggio velleitario al canone (per esempio nel caso del paradossale ribellismo marinettiano) ma come quel sistema di lesioni fertili che contribuiscono nel tempo a rinnovare il canone stesso. 
Questo è il punto è una bussola per orientarsi in uno strumentario espressivo che evolvendo tramite sedimentazioni e rotture del paradigma viene tradizionalmente percepito come un dispositivo debole, continuamente opinabile, persino arbitrario; se non subentra una pratica interpuntiva adulta, l’uso scolastico sarà  l’escamotage semplificante nel quale si cercherà  rifugio. 
Serafini incoraggia allora a intrattenere con ogni segno un rapporto al contempo consapevole e affettivo (se non affettuoso): a diventare, cioè, autori delle proprie scelte di punteggiatura. Per esempio a riconoscere i due punti non solo come varco d’ingresso a un’elencazione ma anche come il segnale di un impulso della frase a fuggire in avanti, oppure a sentire le parentesi emblematiche di quel bisogno della lingua di precisare se stessa chiosandosi (nonché a inabissarsi famelica nella propria stessa materia), le virgole come il segno che nel non volersi assumere la responsabilità  di chiudere il discorso preferendo procrastinare la fine (la virgola è un segno-Sherazade) rivela il desiderio della frase di durare per più tempo possibile; e ancora il saggio di Serafini induce a riconoscere la capacità  dei tre puntini di calibrare dissolvenze marcando fisicamente la quota di vuoto presente in ogni testo, così come stimola a essere sobri nell’uso dei punti esclamativi (soprattutto se impiegati per dopare artificialmente il discorso).
Il secondo obiettivo che Questo è il punto fa suo riguarda una scelta di campo. Nel ripercorrere una disputa infinita – quella che contrappone chi pensa alla punteggiatura come a un dispositivo prosodico-pausativo (la concezione per cui la punteggiatura individua pause di diversa lunghezza) a quella che le attribuisce una funzione logico-sintattica – Serafini prende una posizione netta: «La concezione pausativa è il magnete, quella sintattica il Nord». In altri termini, andando oltre le tentazioni di una punteggiatura “respiratoria” (di fatto un’altra allucinazione scolastica di cui liberarsi in fretta), l’interpunzione è sempre funzionale a scolpire la forma del discorso: segmenta cioè il periodare, lega sintatticamente, individua la tonalità  emotiva di una frase e, come accade quando si ricorre alle virgolette alte o al corsivo, commenta l’uso di un termine enfatizzandolo o invitando a riconoscerlo criticamente.
Ciò che in questo breve saggio suscita sorpresa e ammirazione è che non circoscrivendo il ragionamento e la scelta degli esempi al solo ambito letterario, ma dilatandosi invece verso contesti quali il cinema, le serie televisive, le graphic novel e internet, l’«esperienza della lingua» descritta da Serafini si configura come una ragnatela di deduzioni e di intuizioni, come una continua sperimentazione di linguaggi eterogenei. Perché tutto è testo, ci sembra di poter dire. L’esistente, se inscritto in una cornice di riferimento, si rende disponibile alla lettura, ed è allora che la punteggiatura interviene per rendere riconoscibili le strutture interne, per segnare eventuali scarti laterali, per annodare o per sciogliere un’andatura.
In altri termini, tutt’altro che essere – come pretendeva quel vecchio compagno di classe – una malattia esantematica, un malizioso morbillo della pagina, la punteggiatura è l’orchestra di segni che abbiamo a nostra disposizione per dare forma alla scrittura. Ricordandoci che senza un direttore consapevole che di continuo osservi e ascolti la lingua, non si genera senso.


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Viaggio nelle carte del poeta e narratore, e per quarant’anni operaio metallurgico a Oslo, tra filigrane autobiografiche, romanzi forse inediti e lettere al curaro scritte a valanga, dall’isolamento rabbioso del suo bunker norvegese, contro giovani editori e «critici comunisti» Anche le case possono morire d’abbandono come i vecchi, le cose come la carne viva e anche gli scrittori estinguersi se nessuno li stampa e li legge, li cura, cerca di tenerli in vita. Così in questa domenica un po’ malinconica e tediosa di settembre sono tornato nella casa che non abito più da mesi ma dove al piano di sotto vivono i miei genitori come in un lungo letargo di giorni.

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