by Editore | 13 Maggio 2012 12:51
ROMA — «Al lavoro di sabato e domenica. Deve servire a qualcosa. Lo spero. La voglia di fare per l’Italia c’è ancora tutta».
Questo messaggio, affidato a Twitter dal sottosegretario Antonio Catricalà subito dopo l’ultimo vertice al Quirinale, suona quasi come un bis della lettera di palazzo Chigi a Napolitano, giovedì. Quella in cui, nel fare gli auguri al capo dello Stato per il suo settimo anno sul Colle, Mario Monti assicurava la propria determinazione a concludere il mandato senza lasciarsi destabilizzare dalle tensioni politiche seguite al voto amministrativo. Insomma: una prova di ottimismo della volontà (e stavolta forse pure della ragione) da parte del governo. Con l’avvio di una «fase due», sia sul fronte dell’equità e della crescita, sia sul fronte delle riforme.
Ed esattamente di questo hanno parlato ieri il presidente della Repubblica e il premier, accompagnato da Catricalà e dal ministro per la Pubblica amministrazione e per la semplificazione, Filippo Patroni Griffi. Le nostre emergenze, infatti, non riguardano soltanto la tenuta dell’economia, ma toccano anche, e in modo sempre più pesante, la credibilità della politica. Ora, un terreno sul quale dare un segnale concreto al Paese esiste, e Napolitano preme affinché un impulso lo sia dia subito: la riforma costituzionale in cantiere da mesi al Senato, «il cui percorso va sostenuto e al cui buon esito tutti sono interessati», come spiegano al Quirinale. «Buon esito» che, per la gabbia dei tempi tecnici, impone però che non si perda più neanche un giorno. Altrimenti sarà impossibile chiudere la partita entro la legislatura.
Il testo unificato preparato dalla commissione Vizzini raccoglie le posizioni di tutti i partiti e, come si sa, tocca alcuni snodi delicati: 1) la riduzione del numero dei parlamentari, che scenderebbero a 500 alla Camera e a 250 al Senato, mantenendo una piccola rappresentanza degli italiani all’estero; 2) il meccanismo della sfiducia costruttiva, sul modello tedesco; 3) più forti poteri al premier, ad esempio con possibilità di revoca dei ministri e di chiedere al capo dello Stato lo scioglimento delle Assemblee; 4) il superamento del bicameralismo perfetto, senza più simmetrie obbligate tra le funzioni della Camera e quelle del Senato.
Sui quattro punti un accordo c’è, almeno come impostazione di massima. Manca invece del tutto su una legge elettorale che sostituisca l’attuale «porcellum»: legge ordinaria, questa, ma che dovrebbe viaggiare in parallelo con l’altra riforma, costituzionale. Di qui il dilemma, divenuto paralizzante dopo il voto di una settimana fa, perché i partiti sono adesso incertissimi su che cosa convenga loro: andare avanti lo stesso con la bozza Vizzini o tenerla in ghiacciaia e aspettare che si trovi una (ardua) intesa sulla legge elettorale?
Ecco su quale palude di esitazioni il capo dello Stato tenta di dare una scossa. Tornando appunto sul tema nel colloquio con Monti, al quale ha ripetuto ciò che aveva detto in pubblico, il 25 aprile, a Pesaro. Quando, dopo aver certificato con soddisfazione la «caduta di vecchie contrapposizioni e forme di sorda incomunicabilità tra opposte parti politiche», aveva premuto sui partiti perché «non esitassero» a concordare in Parlamento «soluzioni urgenti, anzi indilazionabili». Era un incoraggiamento ai leader politici improntato al realismo, più o meno di questo tenore: fate un favore a voi stessi… se non altro per il patto che siete riusciti ad abbozzare, vale la pena di continuare la legislatura…
Ragionamento sul quale il premier si è dichiarato d’accordo. Promettendo non solo di «agevolare» da Palazzo Chigi l’iter di quella riforma, ma di farsi promotore di proposte utili all’autoriforma dei partiti, oltre che di interventi sui costi della politica.
Da domani per Monti si aprono settimane cruciali in Europa. Comunque la si pensi sul suo governo, sembra l’unico in grado di negoziare qualche impegno utile all’Italia e di dimostrare anche agli interlocutori più rigidi — si spera — che la crescita è possibile senza far saltare i conti pubblici. Questa è la sua missione, di cui riferirà via via ogni passaggio al Quirinale. Se riuscirà nell’impresa, avrà gli strumenti per confutare con nuovi provvedimenti certe accuse di «scarsa sensibilità sociale». Ma soprattutto metterà un argine al disagio diffuso che sta diventando un assillo per lui e per Napolitano.
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