La lenta agonia dei pescatori di Gaza

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Mahmud al Assi, presidente della cooperativa dei pescatori, parla a nome di tutti i suoi compagni. Il blocco navale israeliano della Striscia di Gaza e la lotta al contrabbando di carburante (diretto a Gaza) attuata negli ultimi mesi dalle autorità  egiziane, stanno trasformando i pescatori palestinesi in pescivendoli. In venditori di pesce proveniente in gran parte proprio dall’Egitto. «Una volta pescavamo abbastanza da regalare il pesce a poveri e bisognosi. Ora invece siamo costretti a chiedere aiuto per sopravvivere», spiega al Assi ai giornalisti che lo cercano al telefono cellulare per chiedergli come vanno le cose. «Sempre peggio», risponde l’anziano lupo di mare. Qualche anno fa erano 3.700 i pescatori a tempo pieno, capaci di portare a riva tanto pesce da soddisfare la domanda di Gaza e di esportare verso Egitto e Israele (otto autocarri al giorno). Il pesce fresco – cernie, orate, dentici -, alla griglia o fritto, è, o meglio, era parte dell’alimentazione nella Striscia. Ora Gaza importa l’80% del pesce ed i pescatori palestinesi nelle reti il più delle volte trovano solo un po’ di sardine. Occorrerebbe spingersi verso acque più profonde per pescare pesce più pregiato ma il limite di tre miglia dalla costa imposto, unilateralmente, dalla Marina militare israeliana, non lo consente. Un tempo il «confine» era di 12 miglia ma dopo l’inizio dell’Intifada palestinese nel 2000 e la presa del potere a Gaza del movimento islamico Hamas nel 2007, è stato progressivamente ridotto sino al punto attuale. Le motovedette israeliane, peraltro, intervengono non appena le imbarcazioni palestinesi puntano verso il limite consentito e non esitano ad aprire il fuoco, per «ragioni di sicurezza». I co«Proprio come i pesci, moriremo se rimarremo fuori dall’acqua per troppo tempo», mandi militari affermano di combattere il traffico di armi e possibili incursioni nelle acque territoriali israeliane, ma di fronte hanno solo pescatori. Così partono raffiche di avvertimento in acqua, talvolta anche sulle barche. In questi anni i pescatori hanno riportato a riva compagni feriti, in qualche caso morti. Altre volte i pescatori non tornano a casa, perchè arrestati in mare, sempre «per motivi di sicurezza», e portati ad Ashdod. «Più dell’arresto i pescatori di Gaza soffrono la confisca delle barche e dei pescherecci e i danni ai motori delle imbarcazioni – spiega l’attivista e fotoreporter Rosa Schiano – Israele restituisce le barche solo dopo diversi giorni lasciando senza lavoro intere famiglie palestinesi». Un motore danneggiato, aggiunge l’attivista, «vuol dire la rovina per tante persone. Il costo per l’acquisto o la ripazione di un motore è molto alto e i pescatori possono affrontarlo solo indebitandosi». Rosa Schiano conosce bene le difficoltà  dei pescatori. Fa parte del progetto «Oliva», la piccola barca di monitoraggio delle violazioni israeliane nelle acque di Gaza, e in questi ultimi mesi è più volte uscita in mare per seguire i pescatori palestinesi, registrando gli abusi che subiscono. «La condizione dei pescatori si fa sempre più dura – avverte Schiano – i limiti imposti da Israele e le altre misure punitive stanno facendo morire lentamente un lavoro ed una tradizione molto importanti per la gente di Gaza». Ad uccidere la pesca palestinese è anche la crisi del carburante. Al blocco israeliano di Gaza, lo scorso febbraio si sono aggiunte le misure repressive egiziane contro il contrabbando di gasolio e benzina, lungo i tunnel sotterranei tra il Sinai e la Striscia. Il prezzo del gasolio egiziano sul mercato nero di Gaza oggi è circa il triplo di quello che era alcuni mesi fa, a causa anche delle tasse sul carburante decise dal governo di Hamas (che di recente ha accresciuto di 2-3 volte il carico fiscale e doganale sulle merci che entrano a Gaza attraverso i tunnel). È possibile acquistare benzina e diesel che vengono da Israele ma i prezzi sono proibitivi per il 90% della popolazione. La pesca ne ha subito sofferto. I pescatori dicono che il governo di Hamas garantisce loro combustibile una volta alla settimana, costringendoli a cercare il resto sul mercato nero. Solo pochi hanno i mezzi per acquistare il gasolio, gli altri fanno i pescivendoli con ciò che arriva dall’Egitto. Un tempo un pescatore riusciva a guadagnare fino 300 shekel al giorno (60 euro), oggi va bene se ne guadagna 20 (4 euro). Mahmud al Assi ha stimato in 11 milioni di dollari le perdite annuali per il settore.


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