La follia della valutazione

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Beh, le cose non stanno proprio così. La realtà  che sta emergendo nel caso della classificazione delle riviste scientifiche e della valutazione della qualità  della ricerca (Vqr) è quella di un’Agenzia che ha avviato un’operazione iper-burocratica nelle procedure, autoritaria nei modi, arbitraria nei metodi, sostanzialmente inutile e soprattutto incredibilmente costosa. Si sta sprecando una montagna di denaro pubblico per un processo di valutazione scientificamente dubbio e oggetto di contestazioni e proteste, mentre già  si parla di ricorsi al Tar.
Per cominciare, i gruppi di esperti valutatori (Gev) delle varie aree scientifiche sono stati nominati direttamente dal Consiglio direttivo dell’Anvur senza alcuna selezione pubblica o trasparente. Il che evidentemente compromette del tutto la loro legittimità  e autorevolezza. Si tratta di professori universitari in alcuni casi dall’ottimo curriculum e in altri meno o molto meno, come si può vedere facilmente in base ai loro indici bibliometrici. E soprattutto, pochissimi sono esperti di valutazione della ricerca, che oggi è un vero e proprio ambito scientifico iper-specializzato, in cui è necessario districarsi tra algoritmi, logiche culturali e telematiche. Per esempio nel Gev della mia area scientifica (14, «Scienze politiche e sociali»), nessuno dei 13 «esperti» ha pubblicazioni significative nel campo della valutazione.
In alcuni Gev, come quello di Sociologia, i criteri adottati per classificare le riviste sono a tutt’oggi sconosciuti, e ci sono fondati motivi per ritenere che si basino sul classico do ut des accademico (si veda su questo la presa di posizione di una cinquantina di professori di sociologia, tra cui il sottoscritto, leggibile sul sito della loro associazione di categoria, l’Ais, e su www.roars.it ). In altri, come Filosofia, la classificazione è stata imposta, anche se la Società  italiana di filosofia teoretica l’aveva rifiutata con solidi argomenti. In altri ancora, come Filosofia politica, nelle direzioni o redazioni di riviste classificate in prima fascia siedono alcuni valutatori, il che configura un evidente conflitto d’interessi, come hanno denunciato Maria Chiara Pievatolo e Brunella Casalini sul «Bollettino telematico di filosofia politica».
Quanto alla valutazione della qualità  della ricerca, si tratta di tre «prodotti» (il termine ufficiale è già  agghiacciante in sé e dà  un’idea dello stile dell’intera faccenda) o pubblicazioni già  edite che ogni docente universitario è tenuto a inviare ai valutatori. Se si voleva stabilire la produttività  dei docenti e il loro «impatto» scientifico – per premiare o punire i relativi dipartimenti – bastava andare a vedere chi non aveva pubblicato nulla o era sotto i limiti della decenza. Con la tanto sbandierata peer review (o «valutazione dei pari»), invece, centinaia se non migliaia di valutatori sconosciuti (e arbitrariamente nominati) si metteranno a giudicare i colleghi (in realtà , come molti pensano, si limiteranno a leggere gli abstract in inglese). Visto come è andata in certi casi con la classificazione delle riviste, tutto fa pensare che i valutatori avranno soprattutto un occhio di riguardo per le cordate a cui appartengono (nel sub-Gev di sociologia, per esempio, la maggioranza è costituita da docenti che fanno capo al gruppo dei sociologi cattolici, proprio come la vice-presidente dell’Anvur, Luisa Ribolzi, mentre la minoranza ha un evidente ruolo cosmetico). D’altra parte, se l’università  italiana è infestata dai baroni, perché costoro, grazie alla bacchetta magica dell’Anvur, dovrebbero diventare di colpo virtuosi e mettersi a giudicare oggettivamente i colleghi?
Ma quello che agghiaccia veramente è il costo dell’intera operazione. Secondo l’economista Giorgio Sirilli (vedi i suoi interventi sul sito www.roars.it ), più di 300 milioni di euro tra costi diretti e indiretti. La sola Anvur costa ai contribuenti 10 milioni l’anno, ma si tratta di una valutazione per difetto. Il Consiglio direttivo costa 1.281.000 euro all’anno in compensi (210.000 al presidente e 178.500 agli altri sei componenti, peraltro già  dotati di congruo stipendio o pensione). Solo valutare 200mila prodotti circa a 30 euro l’uno (è l’obolo versato ai valutatori) costerà  6 milioni di euro, senza contare gli oneri contabili e amministrativi. Tutto il resto sarà  speso in compensi per i membri dei Gev, rimborsi, missioni, lavoro amministrativo eccetera (in ogni università  decine di impiegati sono al lavoro sulla valutazione e su quell’altra geniale trovata dell’U-Gov o governance del sistema accademico).
C’era bisogno che l’università  italiana – vecchia, baronale, sotto-finanziata, incapace di reclutare e rinnovarsi – subisse questo salasso? Invece di finanziare i progetti di ricerca e svecchiare la docenza, i ministri Gelmini e Profumo, con i loro consulenti e valutatori nominati senza trasparenza, hanno avviato un carrozzone iper-costoso che non farà  che confermare i poteri accademici esistenti. Come giustificano questo spreco di risorse, offensivo per il paese in tempo di sacrifici e sofferenza sociale, Monti, Passera, Profumo, Fornero e il resto del governo dei professori?


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