LA DOLCE VITA DI MATTA SURREALISTA ERETICO
Quando, nel 2002, il pittore Roberto Sebastià¡n Antonio Echaurren, conosciuto come Matta, morì a 92 anni, era esattamente mezzo secolo che viveva in Italia. Anni prima quando gli chiedevano perché avesse scelto Roma come una residenza quasi stanziale, dopo essere stato un artista nomade e aver vissuto ovunque, lui rispondeva sempre di essere rimasto affascinato dai racconti di amici arrivati da Roma che ne parlavano come la città più creativa, attiva e divertente d’Europa.
Per la verità Matta era stato quasi cacciato dagli Stati Uniti dove viveva da dieci anni e dove sarebbe rimasto volentieri ancora per qualche tempo. In quell’epoca faceva grandi tele chiamate Psychological Morphologies, affollate di forme allucinate che ricordavano totem o corpi umani senza mani né piedi, fluttuanti come in sospensione in uno spazio cosmico di tipo gassoso. Erano lavori che venivano molto apprezzati ed esposti nella galleria Matisse, il posto più chic di New York, dove il figlio del grande Henri Matisse, rivale immaginario di Picasso, si era specializzato per amore del paradosso in quadri post o trans-picassiani, facendo eccezione per Matta e pochi altri.
Nella primavera del 1942 era arrivato a New York, preso in affitto da Peggy Guggenheim, un aereo sovraccarico di artisti e scrittori che aveva preso il volo dal buio del vecchio mondo ormai in mano alle armate naziste. C’erano artisti come Max Ernst, Yves Tanguy, Marc Chagall, Fernand Léger, Piet Mondrian e André Masson. I surrealisti, che venivano tutti tenuti al guinzaglio dall’odioso, retorico e fanatico André Breton, avevano colonizzato l’area intorno a Washington Square. Matta era stato quasi subito accolto da Breton e funzionava da tramite tra la vecchi generazione europea e la nuova generazione americana Pollock, Gorky, Rothko, Motherwell, perché era l’unico degli immigrati che parlasse perfettamente inglese.
A un certo punto incominciò per Matta un periodo nero. Venne cacciato dal gruppo di Breton solo per aver incontrato Sartre una sera e fu accusato dagli amici di aver avuto un ruolo poco nobile, come amante della moglie, nella vicenda del suicidio di Gorky. Un’accusa ridicola in un mondo che vedeva il valore etico delle corna coniugali al più come un diversivo per combattere la noia. Le difficoltà maggiori vissute da Matta non dipendevano da faccende sessuali ma da questioni politiche. Lui era accesamente antistalinista, e ostentatamente dalla parte della Quarta Internazionale di Trotsky. Una posizione simile veniva considerata sovversiva, in un momento in cui l’Urss era alleata degli Stati Uniti, così l’Fbi, allora particolarmente sensibile alle interferenze straniere nella politica americana, lo aveva preso di mira, allargando le indagini anche ai suoi amici. Per le autorità americane Matta non era più un ospite gradito, e l’artista fu costretto a lasciare gli Stati Uniti. Fu un trauma che durò molto a lungo nel suo animo.
Roma era il posto ideale per curare le anime inquiete e maltrattate. Matta era diventato famoso, più famoso in Europa che in America, e in pochi mesi diventò amico di quasi tutti, aiutato da una simpatia naturale che emanava dal suo corpo e si spandeva tutt’intorno come un’aura. Parlava una lingua franca inventata, definita da Giuliano Briganti “la lingua di Matta”, vagamente simile a quella parlata da Helenio Herrera, l’indimenticabile allenatore dell’Inter. A Roma aveva preso a frequentare gli ambienti più diversi, con una debolezza per i tipi eccentrici e paradossali, e anche al limite della legalità . La città , non invasa dalle automobili, era ancora padrona delle sue strade, i lungotevere ombrosi, la campagna con i ruderi tutt’intorno, il mare a due passi con la rotonda, i krapfen caldi che calavano dall’alto dal dirigibile erano quelli di sempre. La notte si poteva passeggiare lungo Piazza Navona completamente vuota ascoltando l’eco dei propri passi riportato dalle mura dei palazzi, e la vista dal Gianicolo era sempre quella preferita da Trevelyan, che sfumava nel turchiniccio dei castelli.
La sua prima mostra venne organizzata all’Obelisco dall’impagabile Irene Brin e da Gaspero Dal Corso, che si erano specializzati in surrealisti. La sera lo si poteva vedere da Cesaretto o da Menghi, due locali di habitués. Matta andava spesso in giro in compagnia dello scultore siciliano Consagra e di Amerigo Tot, un artista ungherese arrivato a Roma a piedi dalla Germania, inseguito dai nazisti. Tot, autore del fregio del frontone della stazione Termini, era un erotomane che organizzava in casa sua, in via Margutta, feste oscene. Una delle serate più divertenti a cui Matta aveva partecipato appena arrivato a Roma era stato un happening intitolato “serata anticlericale” e organizzato da Consagra il 20 settembre del 1949 per ricordare la breccia di porta Pia. Tutti gli invitati portavano mitrie papali decorate con simboli fallici e altre amenità , e avevano ballato tutta la notte rumbe e boogie-woogie, imprecando contro il Vaticano e ripetendo la famosa battuta di Nino Bixio: «Quando vedi un’ombra spara, può essere un prete!». I dirigenti del Pci, allora discretamente bacchettoni, informati della serata, chiamarono immediatamente a rapporto alle Botteghe Oscure Consagra e Turcato, pittori “vicini” al partito. E inflissero ai due un liscio e busso per aver tenuto un comportamento “decadente e indegno di un comunista”.
Adesso questi straordinari anni sono ricordati in una bellissima mostra intitolata Matta. Un surrealista a Roma che si tiene all’AuditoriumArte e Foyer Sinopoli (fino al 20 maggio), organizzata, in occasione del centenario della nascita dell’artista, da Claudia Salaris, che ha sposato un figlio di Matta, autrice di uno splendido e documentatissimo saggio sul catalogo. Vivendo anche noi in una Roma così differente da quella di allora avevamo avuto a volte l’impressione, negli ultimi tempi, che quella città frequentata da ragazzi, fosse qualcosa di immaginario, una leggenda metropolitana, una proiezione dei nostri desideri. La mostra ha provato che quella Roma è veramente esistita, dandoci una non superficiale, molto sentita emozione.
Related Articles
L’onore delle brigantesse
Le due parole fatali, «guerra civile», compaiono già all’inizio della storia dedicata da Giordano Bruno Guerri alle lotte e agli amori delle brigantesse nel Sud.
Allegri e diffusi nel fare società