JOHNATHAN FRANZEN “NON MI FIDO DI TWITTER E JOYCE PERCHà‰ SIMULANO I SENTIMENTI”

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New York
A un anno e mezzo di distanza dall’uscita americana di Libertà , Jonathan Franzen ha pubblicato Farther Away, una raccolta di saggi che uscirà  in Italia da Einaudi. Se si conta la traduzione in inglese del Risveglio di Primavera di Wedekind, si tratta del suo ottavo libro, e il titolo (letteralmente “ancora più lontano”) è la traduzione inglese di “Masafuera”, il nome indigeno di un’isola sperduta al largo del Cile, conosciuta ufficialmente come Alejandro Selkirk. Si tratta dell’isola, impervia e deserta, che ha generato il mito di Robinson Crusoe, e dove Franzen è andato dopo la tournée di promozione del romanzo: qui, felicemente, si è dedicato all’osservazione di specie rarissime di uccelli e qui, dolorosamente, ha disperso in mare le ceneri di David Foster Wallace. Questa esperienza estrema, che ha suggerito a Franzen una riflessione sul significato dell’amicizia, del rapporto con la natura ed in ultima analisi sul senso ultimo dell’esistenza, è stata quindi raccontata in un reportage pubblicato dal New Yorker. Il saggio è oggi tra quelli compresi nel libro, che spazia in campi diversissimi: dall’incontro con bracconieri nel Sud dell’Europa, alla riflessione sul suicidio di Foster Wallace, dal rapporto tra arte e tecnologia ai disastri ambientali in Cina. Una raccolta volutamente eclettica, composta anche da una serie di discorsi pronunciati in pubblico. «Mi sono accorto che la scrittura dei romanzi non mi tiene sufficientemente impegnato – racconta – e credo che per me sia sano alternare la narrativa alla saggistica».
Si ritiene un romanziere che scrive saggi o viceversa? 
«Negli anni ho imparato a rispettare sia gli scrittori di saggi che gli autori di memoir: sarebbe assurdo che un romanziere li guardasse dall’alto in basso. Tuttavia, se devo rispondere onestamente, mi considero un romanziere che scrive ogni tanto dei saggi».
In uno dei saggi parla con freddezza dell’Ulisse di Joyce.
«Ovviamente stiamo parlando di un grande capolavoro per il quale provo un’enorme ammirazione, tuttavia ritengo che sia un progetto letterario freddo, paragonato a esempio a quello che è riuscito a fare Beckett per descrivere l’orrore dell’esistenza e creare un testo sperimentale che corrispondesse a quel sentimento. Non si tratta di una questione di grandezza, ma di vulnerabilità : leggere Joyce mi dà  l’impressione di trovarmi di fronte a quelle brillanti menti gesuite che prima pensano e poi provano dei sentimenti». 
Qual è la vulnerabilità  che ammira?
«Dostoevskij: ne gronda in ogni pagina, e senti il tormento con cui scrive. Ma anche in Proust senti lo scrittore che si mette in gioco». 
Il libro attacca frontalmente Harold Bloom, che non ha mai amato i suoi libri.
«Anche in questo caso non metto in discussione la sua grandezza di critico per quanto riguarda la poesia, ma il suo approccio funziona molto meno per il romanzo. Inoltre ha uno sguardo maschilista, e apprezza solo i grandi scrittori della sua generazione».
Mentre lei ammira Paula Fox e Alice Munro.
«Della prima arrivo a dire che nessuno tra Bellow, Roth e Updike ha mai scritto un singolo romanzo del livello di Quello che rimane, mentre ritengo la Munro semplicemente il più grande autore vivente». 
Come mai questa predilezione per la letteratura femminile?
«Non voglio cadere nella trappola del sessismo al contrario. Affermo con uguale entusiasmo che DeLillo è un grandissimo autore, ma apprezzare solo autori maschi è come andare ad una festa dove ci sono solo uomini: è innanzitutto noioso. Di norma le scrittrici, almeno quelle che ammiro, sono più interessate ai legami e alla comunicazione, e meno a fare impressione sui lettori». 
Non teme che l’accusa di conservatorismo che muove a Bloom si possa applicare anche a lei, Franzen, e alle sue idiosincrasie per le nuove tecnologie?
«Studio le nuove tecnologie da quando avevo vent’anni, non si tratta di qualcosa che è comparsa nella mia vita quando ho raggiunto la mezza età , e sono convinto che i social network, specie Twitter, stanno corrompendo il modo di ragionare e di scrivere». 
Ritiene che questo abbia ripercussioni anche in politica?
«Certamente. I social network mobilitano solo chi è già  d’accordo su qualcosa. Non nego che possano servire a comunicare, ma credo che, rispetto all’espressione del pensiero, tutto si riduca a “parere”. Credo non si possa scrivere nulla di serio e articolato in 140 caratteri, e la semplificazione porta sempre con sé il rischio della frase ad effetto, se non della menzogna».
Nel discorso per i laureati al Kenyon College parla del rapporto con i gadget come fossero oggetti di desiderio erotico.
«Il tema di quel discorso era la ricerca dell’amore, e, parlando di tecnologia e media, mi sono soffermato sul rapporto morboso che si ha con i telefonini e i palmari. Un impulso erotico per uno strumento che dovrebbe essere confinato in ufficio. C’è un altro elemento: noi sostituiamo i nostri vecchi gadget sapendo che quando li scarichiamo non possono lamentarsi: accentuano o simbolizzano un rapporto puramente edonista ed egoista. In una società  che tenta di convincerti che se ami qualcuno devi acquistare qualcosa, l’unica risposta è l’amore vero». 
In quel discorso sostiene anche che gli scrittori parlano sempre di loro stessi, eppure lei nega l’autobiografismo…
«Bisogna intendersi sul concetto di autobiografia: credo che non esista opera più autobiografica della Metamorfosi di Kafka, e sono cosciente che non si fugge mai da se stessi».
Ha scritto un decalogo sulla scrittura nel quale uno dei comandamenti recita: i verbi interessanti sono raramente molto interessanti.
«Un verbo particolarmente ricercato nelle prime due pagine di un libro è un segno sicuro che lo scrittore non sta “ascoltando” il proprio lavoro ma vuole solo colpire il lettore. Lo dico per esperienza personale: sono errori che ho commesso anche io».
Un altro comandamento è «il lettore è un amico, non un avversario o uno spettatore».
«Penso al comandamento evangelico: ama il tuo prossimo come te stesso. Quando leggo non mi piace essere solo uno spettatore, né, peggio, una presenza ostile che lo scrittore cerca di correggere». 
Fra sei mesi si vota…
«Rispondo solo che è sempre difficile essere un buon presidente, in particolare in condizioni come queste».


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