by Editore | 21 Maggio 2012 7:25
Per quanto ne so, è stato un economista, il professor Guy Standing, a coniare (e ha colto nel segno!) il termine precariat. Lo ha fatto per rimpiazzare contemporaneamente i termini proletariat e middle class (ceto medio), ormai ampiamente giunti a scadenza e divenuti dei «termini zombi», come li avrebbe certamente definiti Ulrich Beck. Come suggerisce il blogger che si cela dietro lo pseudonimo di Ageing Baby Boomer (cioè un figlio del baby boom in là con gli anni) «è il mercato che definisce le nostre scelte e ci isola impedendo a chiunque di mettere in discussione il modo in cui tali scelte sono definite. Chi fa una scelta sbagliata sarà punito. Ma a rendere tanto crudele il mercato è il fatto di non tenere minimamente conto che certe persone sono molto meglio attrezzate di altre per scegliere bene perché possiedono il capitale sociale, il sapere o le risorse finanziarie».
Ciò che «unifica» il precariato, ciò che tiene insieme quell’insieme estremamente diversificato facendone una categoria coesa, è la sua condizione di massima frammentazione, polverizzazione, atomizzazione. Tutti i precari soffrono, indipendentemente dalla loro provenienza o appartenenza, e ciascuno soffre da solo. Ma tutte queste sofferenze sopportate individualmente mostrano una somiglianza sorprendente fra loro. Si riducono a una cosa sola: la pura e semplice incertezza esistenziale, una spaventosa miscela di ignoranza e di impotenza che è fonte inesauribile di umiliazione.
Tuttavia queste sofferenze non si sommano, anzi dividono e separano coloro che le subiscono, negando loro il conforto di un destino comune, e fanno apparire risibili gli appelli alla solidarietà .
Tale condizione, sin troppo visibile benché si tenti di dissimularla con ogni mezzo, testimonia che le autorità – quanti hanno il potere di accordare o negare diritti – hanno rifiutato a loro i diritti riconosciuti ad altri esseri umani, «normali» e quindi rispettabili. In tal modo essa testimonia, indirettamente, dell’umiliazione e del disprezzo di sé che sono inevitabile conseguenza dell’avallo, da parte della società , dell’indegnità e dell’ignominia che colpisce alcune persone.
La politica emergente – l’auspicata alternativa a meccanismi politici ormai screditati – tende a essere orizzontale e laterale, anziché verticale e gerarchica. A me essa ricorda uno sciame: come sciami di insetti, alleanze e raggruppamenti sono creazioni effimere, facili da mettere insieme, ma difficili da tenere insieme per il tempo necessario a «istituzionalizzarsi», cioè a costruire strutture durevoli. Possono fare senza quartieri generali, burocrazia, leader, supervisori o caporali. Si unificano e si disperdono pressoché spontaneamente e con la stessa facilità . Ogni momento della loro vita è intensamente appassionato, ma notoriamente le passioni intense svaniscono presto. Non si può erigere una società alternativa sulla sola passione: l’illusione della sua fattibilità consuma gran parte delle energie che costruirla richiederebbe.
Se le rivoluzioni non sono prodotti della disuguaglianza sociale, i campi minati sì. I campi minati sono aree disseminate di esplosivi sparsi a casaccio: si può star certi che una volta o l’altra qualcuno di essi esploderà , ma quale, e quando, non si può stabilire con qualche grado di certezza. Poiché le rivoluzioni sociali sono eventi con uno scopo e con un obiettivo, è possibile fare qualcosa per localizzarle e sventarle in tempo, mentre ciò non vale per le esplosioni dei campi minati. Qualora il campo minato sia stato predisposto da soldati di un esercito, si possono spedire altri soldati, appartenenti a un altro esercito, per estrarre le mine e disarmarle: un lavoro rischioso quant’altri mai, come ci rammenta incessantemente l’antica saggezza del soldato: «L’artificiere sbaglia una volta sola». Ma questo rimedio, per quanto insidioso, non è disponibile nel caso dei campi minati predisposti dalla disuguaglianza sociale: a seminare le mine e poi a estrarle deve essere lo stesso esercito, che non può smettere di aggiungere nuovi ordigni ai vecchi né evitare di metterci il piede sopra più e più volte. Seminare mine e cadere vittime delle loro esplosioni fanno tutt’uno.
Tutte le varietà di disuguaglianza sociale scaturiscono dalla divisione fra ricchi e poveri, come osservava già mezzo millennio fa Miguel Cervantes de Saavedra. Tuttavia, in epoche diverse, possedere o non possedere oggetti diversi sono rispettivamente la condizione più appassionatamente desiderata e quella più appassionatamente sofferta. Due secoli fa in Europa, ancora pochi decenni fa in alcuni luoghi distanti dall’Europa, e ancor oggi su alcuni campi di battaglia di guerre tribali o parchi-giochi delle dittature, l’obiettivo primario che poneva in conflitto ricchi e poveri era il pane o il riso. Grazie a Dio, alla scienza, alla tecnologia e a certi espedienti politici ragionevoli, non è più così. Ma ciò non significa che la vecchia divisione sia morta e sepolta: al contrario… Oggigiorno, gli oggetti del desiderio la cui assenza è più acutamente sentita sono molti e vari, e il loro numero aumenta giorno per giorno come anche la tentazione di ottenerli. E così crescono l’ira, l’umiliazione, il rancore e il risentimento suscitati dal non averli; e con essi il desiderio di distruggere ciò che non si può avere. Saccheggiare i negozi e darli alle fiamme sono gesti che possono derivare dal medesimo impulso e gratificare il medesimo desiderio.
Oggi gli europei sono 333 milioni, ma nel giro di 40 anni, all’attuale tasso medio di natalità (tuttora in calo in tutto il continente), scenderanno a 242 milioni. Per colmare il divario saranno necessari almeno 30 milioni di nuovi arrivi, altrimenti la nostra economia europea subirà un tracollo, e con essa il tenore di vita che ci sta tanto a cuore. Ma come possiamo integrare comunità differenti?
In un piccolo ma interessante studio, Richard Sennett suggerisce che «una collaborazione informale e senza limiti prefissati è la via migliore per fare esperienza della differenza». In questa formula, ogni parola è decisiva. «Informalità » significa che non vi sono regole della comunicazione prestabilite: si ha fiducia che si autosviluppino mano a mano che aumenta la portata, la profondità e la significatività della comunicazione: «I contatti fra persone dotate di competenze o di interessi diversi sono ricchi quando sono disordinati e deboli quando vengono regolamentati». «Senza limiti prefissati» significa poi che l’esito dovrebbe seguire una comunicazione presumibilmente protratta, anziché essere prestabilito in modo unilaterale: «Si desidera scoprire l’altra persona senza sapere dove ciò lo condurrà ; altrimenti detto, si desidera evitare la ferrea norma dell’utilità che stabilisce uno scopo – un prodotto, un obiettivo politico – fissato anticipatamente». E infine «collaborazione»: «Si suppone che le varie parti ci guadagnino tutte dallo scambio, e non che una sola guadagni a spese delle altre». Io aggiungerei: bisogna accettare che, in questo gioco particolare, sia guadagnare che perdere siano concepibili soltanto insieme. O guadagniamo tutti o perdiamo tutti. Tertium non datur.
Sennett riassume il suo suggerimento come segue: «Gli uffici e le strade diventano inumani quando dominano la rigidità , l’utilità e la competizione; diventano umani quando promuovono interazioni informali, senza limiti prefissati, collaborative».
Io penso che tutti noi che siamo chiamati e desideriamo insegnare potremmo e dovremmo imparare la nostra strategia da quel triplice precetto, laconico ma onnicomprensivo, espresso da Richard Sennett. Imparare noi stessi per metterla in atto, ma anche – ed è la cosa più importante – trasmetterla a coloro che sono chiamati e desiderano imparare da noi.
(Traduzione di Marina Astrologo)
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