Intrecci di voci tra male e pentimento

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L’onda umana della folla sulla Rambla pare ignota alle sale dell’Ateneu Barcelonès, nel Palau Savassona, con le palme silenti del suo giardino romantico. Quasi un chiostro laico, che non protegge dal mondo, anzi si apre alle sue parole. In queste sale dal 1906 hanno tenuto banco innumerevoli dibattiti e scambi di vedute. Dietro i gesti pacati, la fermezza di Jaume Cabré si rivela negli occhi mobilissimi e penetranti. Negli ultimi anni lo scrittore sessantacinquenne si è guadagnato attenzione e prestigio in tutta Europa grazie a un manipolo di testi – L’ombra dell’eunuco, Signoria, Le voci del fiume – nei quali ha giocato con serietà  pari alla spregiudicatezza al tavolo delle questioni fondamentali: la natura del male e del potere, i paradossi della storia, le contraddizioni della condizione umana. 
Di Cabré esce ora un romanzo ambizioso, Io confesso (Rizzoli, pp. 780, euro 19,50), tradotto dal catalano con duttile sensibilità  da Stefania Maria Ciminelli. Adrià  Ardèvol i Bosch, ragazzino dall’intelligenza strepitosa e poi uomo combattuto tra gli enigmi del passato paterno sotto la dittatura di Franco e i rimorsi dell’amore per Sara, scrive una lunga lettera-memoriale in lotta contro la malattia spietata che lo minaccia. Da quella lettera si dipana una sorta di autobiografia dell’Europa precipitata in frammenti ed epifanie che disegnano una storia sempre ritornante sotto nuove forme, la storia delle vittime. Il lettore viene sbalestrato senza sforzo apparente dalla Girona medievale dell’inquisitore Nicolau Eimeric a Parigi, alle abetaie della val di Fiemme con i loro «cantatori di legno» e alla Cremona dei liutai del Settecento, per giungere ai gerarchi nazisti della soluzione finale e ai bambini di Auschwitz.
Quella di Adrià  è una formazione dove paradossalmente grazia e condanna suprema è la perdita della memoria, l’obliterazione del tempo che ci pesa sulla schiena, cui il protagonista tenta di riparare in via postuma tramite la scrittura, che gli rivela infine la necessità  di farsi carico di tutte le colpe del mondo. Cabré ama il romanzo dell’Ottocento, Proust e Joyce, e ama Bassani, Lampedusa, Tabucchi. Nei saggi di El sentit de la ficciò ha spiegato che la prosa, come la poesia, ha il diritto di pensarsi secondo moduli musicali. Davanti a lui la storia si dispiega come in una prospettiva esplosa, un disegno architettonico dalla cui totalità  lui preleva un dettaglio, un oggetto magari insignificante osservato sotto altra luce, pronto a divenire motore di una poderosa partitura narrativa. Il respiro ampio di questo romanzo genera così un organismo polifonico in cui più nulla è sicuro, nessuna intenzione segue una via limpida, nessun disegno è completo, l’odio è cortese, l’inganno gentile e ubiquo, l’orrore ha il volto dell’innocenza, dietro la verità  più sacra può spandersi un tanfo di zolfo. 
I fantasmi letterari di Io confesso sono pronti ad abitare la letteratura mondiale. Camminare per Barcellona vuol dire anche sovrapporre alla traccia mentale lasciata dal romanzo l’evidenza fisica inoppugnabile dei suoi luoghi: i rettifili e le facciate magniloquenti dell’Eixample, l’espansione urbanistica ottocentesca, come Carrer de Valencia, dove abita il protagonista; le torri della cattedrale gotica di Santa Maria del Mar, i ritratti sfiniti delle pale quattrocentesche incisi nel duro legno della realtà , le forme quasi biologiche dell’architettura modernista e quelle vitree e fiammeggianti del Palau de la Mùsica Catalana (e la musica è uno degli assi portanti del romanzo, dove un violino costruito da Storioni nel 1764 apre al lettore un viaggio nel tempo). 
Affresco mobile orchestrato con sguardo unitario, Io confesso ha uno stile sorprendente fatto di repentini scarti di soggetto e di voce, continui incroci e sovrimpressioni sull’onda di una frase o un’immagine usate anche ironicamente come trampolino cronologico. La sua vocazione universale proviene in realtà  dall’humus di un’identità  culturale fortissima, quella catalana. 
Che cosa significa oggi scrivere in catalano?
Non potrei scrivere in nessun’altra lingua, perché si scrive con la lingua che viene da dentro. Scrivere in catalano oggi non ha un significato diverso dallo scrivere in altre lingue. Il fatto singolare è questo: scrivo nella lingua che parlo normalmente, ma che dietro di sé non ha uno Stato a difenderla e sostenerla. Noi parlanti catalano siamo all’interno dello stato spagnolo, di quello francese e anche dell’italiano con l’enclave sarda di Alghero, ndr]. Ricordo allora una frase di Umberto Eco: «la lingua dell’Europa è la traduzione». È vero: perché l’Europa è un conglomerato di popoli, lingue, nazioni, stati-nazione, e soprattutto di molte lingue differenti. La lingua catalana è europea ma all’interno dell’Europa ha una condizione particolare, la parlano forse otto o nove milioni di persone ma non ha il supporto di un proprio Stato. 
Si pensa a un titolo di Andrea Zanzotto: Europa, melograno di lingue. 
Ah, è un’immagine che trovo molto bella. 
Come è giunto a un’opzione stilistica così particolare e affascinante?
Soprattutto a partire dall’Ombra dell’eunuco, del 1996, ho cominciato a giocare con l’elaborazione di diverse persone narrative, usando varie prospettive, dalla prima alla terza persona; e mi è piaciuto perché questo avvicinarsi e allontanarsi somiglia a uno zoom. Ho poi pubblicato Viaggio d’inverno, un libro di racconti, e ho cercato di costruirlo in modo che ogni racconto fosse indipendente ma si formassero anche rapporti tra l’uno e l’altro, al punto che ci sono quattordici racconti ma in realtà  narro sedici storie, dato che alcuni personaggi e oggetti passano da un testo all’altro. Dopo, ho lavorato sette anni alle Voci del fiume. Qui avevo un problema tecnico e morale: mi scontravo cioè con lo scorrere del tempo. C’era la maestra, Tina, che viveva nel ventunesimo secolo, e il maestro Oriol che era degli anni ’40 del Novecento. La figura di donna Elisenda Vilabrù li univa, ma non volevo che a dividere Tina e Oriol ci fosse il tempo. Non volevo cioè che il lettore mentre parlavo di Oriol si dimenticasse di Tina, e viceversa. Soprattutto pensando alla motivazione morale, pensando che stavo parlando della responsabilità  delle azioni di una persona. Perché se hai fatto male a qualcuno, anche se sono passati quarant’anni ne sei sempre responsabile. Perciò, qui il tempo è relativo: quel che importa è la responsabilità . O la colpa. Quindi ho provato a eliminare il tempo. Per questo una frase inizia nel 2000 e finisce nel 1940. E il lettore deve capirlo, deve entrare nel gioco. 
Il gioco – serissimo – si incarna in frasi che esordiscono così: «L’Obersturmbannfà¼hrer Rudolf Hà¶ss, nato a Girona nel piovoso autunno del 1320…». 
Il germe di Io confesso è nato pensando di scrivere una storia su un inquisitore medievale. Le pagine da cui ho cominciato si trovano ora nel capitolo 24. Più proseguivo, più la figura di Eimeric si fondeva con quella di Rudolf Hà¶ss. Seguendo questa storia, avevo già  il tono fondamentale che sarebbe stato quello di tutto il romanzo. Qui ho unito il gioco fra prima e terza persona con la relativizzazione del tempo; ma rispetto ai romanzi precedenti aggiungo quella degli spazi. Mi è costato molta fatica ma mi ha appassionato. Ho pensato che i lettori con Le voci del fiume mi avevano compreso, e dunque ho alzato il livello della sfida. 
Mai smarrito la bussola in questa navigazione? 
Esiste lo scrittore che pensa tutto il romanzo prima di scriverlo e invece chi non sa dove finirà . In mezzo ci sono infinite sfumature. Penso che se la storia la sapessi già , avrei la sensazione di eseguire un lavoro su commissione. Se invece scrivi vedendo dove ti porta la scrittura, ogni giorno è un’avventura. È pericoloso; perché magari non arrivi da nessuna parte. Però l’esperienza di aver scritto così tanti romanzi mi fa pensare: sì, tu naviga e qualcosa verrà  fuori. A ogni modo, Io confesso ha avuto momenti di vera disperazione, in cui non sapevo dov’ero. 
Scrivere è cercare di strappare alla morte l’ultima parola, e poi (sono parole di Paul Celan) «sopravvivere è indecoroso, si deve, proprio perché sopravvissuti, scrivere per vivere». Nel libro c’è il senso di colpa dei sopravvissuti all’incendio d’Europa nel Novecento, e c’è Adrià  Ardèvol che con la scrittura cerca di battere la malattia, di sopravvivere dopo la propria fine e di essere anche lui «l’ultimo a parlare» da dentro la morte… 
C’è un conto alla rovescia prima dello scoppio della bomba, e Adrià  lo sa. Questo lo porta a scrivere per necessità  vitale, per non dimenticare, una volta che avrà  perso la memoria. Ma è un romanzo su molte altre cose. Le eredità  dei padri. Il tema della responsabilità  di genitori e figli. 
Con il franchismo che, rispetto alle Voci del fiume, qui è ancora presente ma sottotraccia. E con gli echi di una transizione difficile. 
Quando avevo vent’anni, uscire e andare in Europa era respirare aria pura. La cosa angosciante era tornare indietro, vedere la Guardia Civil alla frontiera; l’idea di rientrare in Spagna significava prendere un lungo respiro e immergersi come in apnea. Adrià  nel romanzo fugge a Tubinga perché vuole studiare con un grande maestro, molti all’epoca andavano a studiare fuori per la possibilità  di uscire dalla Spagna e vivere davvero. Quando parlo del franchismo racconto qualcosa che ho vissuto. La prima volta che ho votato avevo ventotto o ventinove anni. E mi sono sentito molto europeo. 
Procedendo nel «fiume di voci» di Io confesso, la sensazione più invincibile è che non vi sia innocenza ma neanche perdono. È così? 
Il romanzo precedente cominciava con una frase di Jankélévitch: «Padre, non li perdonare, perché sanno quello che fanno». La citazione l’ho scelta solo alla fine della scrittura di quel libro, ma avevo già  iniziato la storia di Io confesso. L’idea della possibilità  o meno del perdono ce l’avevo già  dentro. Dietro c’è la riflessione sul senso di colpa dei personaggi. Da lì è poi derivata l’idea del male, il male assoluto, di chi non ha empatia verso l’altro. Ma ci si può trovare di fronte persone che fanno del male ma si pentono. Come, in Io confesso, la figura del dottor Mà¼ss, che non chiede perdono perché sa di non poter essere perdonato, ma per tutta la vita cerca di rimediare al male che ha fatto. Poi c’è il male quotidiano, gli egoismi di Adrià , il modo in cui tratta Sara e Laura, le donne della sua vita. Bernà t e Adrià  sono buoni amici, ciascuno fa del bene all’altro senza farglielo sapere. Ma infine Bernà t ha una tentazione molto grande e vi cade. Mi sono sorpreso io stesso di questa tentazione, l’ho scoperta solo alla fine. 
La mente corre ai versi di Auden: «Il male non è mai straordinario ed è sempre umano, / divide il letto con noi e mangia alla nostra tavola». 
Certo; il male è anche il male quotidiano, di cui partecipiamo tutti. Non tutti sono mali epici, grandiosi. 
E la libertà  umana? Come si concilia con la presenza del male? 
Il padre di Adrià  si spreta non per inquietudini metafisiche ma per una donna. I discorsi sul libero arbitrio li pone un altro personaggio, Drago Gradnik. Non riesce a capire una questione teleologica. Qual è il ruolo di Dio nella storia del male? Da dove arriva il male se Dio esiste, perché non lo impedisce? Visto che non ottiene risposta da Dio, lo abbandona. 
Nemmeno l’ipotesi contraria ci soccorre. Infatti Adrià  dirà  alla fine: «Il male è che il diavolo non esiste». 
Esattamente: se Dio tace e il diavolo non esiste, l’inferno siamo noi.


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(la Repubblica, SABATO, 10 MARZO 2007, Pagina 33 – Varie)

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