Interrogativi sull’essere ebrei nella modernità 

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C’è un quesito di fondo che attraversa le tante storie di identitificazioni, sofferenze e, a volte, insofferenze, tra ebraismo e sinistra in Italia ed è quello che rimanda alla potenziale natura politica del primo nella società  contemporanea. La domanda nasce dal modo di essere ebrei nella modernità , laddove le ragioni dell’emancipazione, ovvero del superamento della minorità  giuridica sancita dagli equilibri di vecchio regime, si sono associate all’impegno degli stessi nella società  e, di conseguenza, alla loro esposizione nell’agone pubblico. Ne è derivato che l’appartenere a una minoranza vitale per lo sviluppo della società  italiana (soprattutto se tale statuto è condiviso insieme a poche altre, a partire da quella valdese), abbia comportato nel corso del tempo una visibilità  collettiva che è divenuta tanto più tangibile dal momento che la quasi totalità  della parte restante degli italiani si riconosce nella confessione cattolica. 
In altre parole, l’appartenenza ebraica (che è cosa diversa dall’identità , indicando semmai una connotazione di campo che subisce i mutamenti e la plasticità  del tempo) ha vissuto una costante proiezione in quella dinamica tra minoranze e maggioranza che è parte della stessa dialettica democratica. Ragion per cui l’essere ebrei, soprattutto in età  repubblicana, ha rinviato a un aspetto imprescindibile del funzionamento di una democrazia giovane e fragile quale la nostra, legato al ruolo che l’ancoramento a una tradizione di lungo periodo, di per sé minoritaria, svolge nell’elaborazione di una identità  nazionale. Non è quindi un caso se gli ebrei vi abbiano concorso attivamente, dai moti risorgimentali in poi. E non è neanche un caso il fatto che a partire dalla tragica frattura ingenerata dalla leggi razziali fasciste del 1938, questa funzione sia emersa come di assoluta rilevanza. Mussolini ha dato forma a una presenza silenziosa e continua, stabilendo, nella discontinuità  delle interdizioni e delle persecuzioni, la rilevanza pubblica di un gruppo nel definire l’intera identità  di una nazione. 
Queste e altre riflessioni si accompagnano alla lettura del volume di Matteo Di Figlia, Israele e la sinistra. Gli ebrei nel dibattito pubblico italiano dal 1945 ad oggi (Donzelli 2012, pp XII-198, euro 25). Va detto che il tema è spinoso ed è un titolo di merito dell’autore l’essersene fatto pienamente carico senza cadere nella pletora dei luoghi comuni. Ne è derivato un testo equilibrato e onesto, attento a raccogliere il pluralismo dei punti di vista senza irritare gratuitamente il lettore. 
Significativo anche il fatto che Di Figlia usi la prima persona, soprattutto quando rinvia a frammenti biografici molto intensi, senz’altro tra le parti migliori del libro. Il quale può essere letto anche come una biografia di gruppo, poiché l’intreccio politico si dipana attraverso il canovaccio dei rapporti interpersonali, dalla famiglia alla militanza politica e culturale fino alla dimensione sociale e relazionale della comunità  ebraica. In più di un passaggio la descrizione fa prudentemente premio sull’analisi. Quest’ultima, peraltro, pare di non facile formulazione se si parte dal presupposto che gli stessi concetti di «ebraismo» e «sinistra» peccano di un eccesso di astrazione, indicando a volte, prima ancora che dei soggetti storicamente dati, alcune categorie ideali. 
Pare quindi convincente, insieme alla cronologizzazione che Di Figlia usa in quanto periodizzazione di riferimento (rimandando al 1938, al 1967 e al 1982), il richiamo alla dimensione generazionale nella formulazione del problema del rapporto tra tre spazi, ossia quello comunitario degli ebrei, quello politico della sinistra e quello societario della Repubblica italiana. 
Le sensibilità  prevalenti si articolano intorno alle fratture che gli eventi della storia mediterranea producono nella coscienza collettiva. Si tratta dell’incidenza di fattori spesso eterodiretti, che intervengono nella rielaborazione di legami profondi, sancendo nel corso del tempo mutamenti più volte tradottisi in separazioni. L’elemento indice è il ruolo dello Stato d’Israele, ovvero delle diverse immagini che nel corso del tempo sono state introiettate dall’opinione pubblica. 
Non di meno, sul versante ebraico, ciò che viene progressivamente contestato ai non ebrei, soprattutto a partire dal 1982, è l’incapacità  di formulare il tema dell’identità  in termini che non siano puramente assimilatori. Di fatto ne deriva un declino del legame tra ebrei e sinistra, inizialmente affidato al comune sentire antifascista, tanto più dal momento che tale discriminante perde di rilevanza nel quadro della costruzione dell’identità  nazionale. In realtà  l’accento posto su questo progressivo sfilacciamento è il paradigma di un più generale processo che ha coinvolto la società  italiana, laddove sono le idee stesse di patria, di nazione ma anche e soprattutto di identità  e di identificazione ad avere subito un processo di mutamento che è ancora in atto. 
Alla dimensione societaria che, nel pensiero della sinistra, avrebbe dovuto fare premio su ogni altra identificazione, subentra, con gli anni Ottanta, il ritorno del comunitarismo che investe tanto più quelle minoranze dense, portatrici di una appartenenza di lunga data non meno che vivacemente rielaborata. È un percorso che segue di pari passo la ridefinizione del ruolo dello Stato nazionale e, va riconosciuto, la consunzione della sinistra, laddove oggi uno dei due capi del confronto di fatto è venuto a mancare.


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