Indigeni a Roma, stop alle grandi dighe
Dietro la grande diga gonfiabile, simbolo della contestazione, c’erano anche rappresentanti del Comitato no Coke di Civitavecchia e del Comitato ambiente Amiata: le comunità «impattate» dai progetti dell’Enel, venute a far sentire le proprie ragioni all’assemblea annuale degli azionisti, che si svolgeva all’interno. Enel, la più grande società elettrica italiana, seconda in Europa per potenza installata, è stata privatizzata nel 1999 ed è quotata in borsa, e conta 1,2 milioni di azionisti. Resta, però, in parte, proprietà del ministero dell’Economia e delle finanze. Per questo, le associazioni hanno chiesto conto anche al governo italiano.
In una conferenza stampa che si è tenuta per strada hanno parlato sindaci e dirigenti indigeni guatemaltechi, rappresentanti delle comunità mapuche del Cile, attivisti colombiani, rumeni, russi, albanesi, italiani: testimonianze accese e vibranti contro grandi dighe, centrali a carbone, progetti per i nuovi impianti nucleari considerati ad alto rischio. «L’energia non si dipinge di verde, l’energia è rinnovabile», recitava un cartello: per dire che, malgrado l’immagine verde e il dichiarato impegno per un modello ecosostenibile, la società italiana, che opera in 40 paesi nel campo dell’energia elettrica e del gas, «continua a costruire centrali a carbone, usando in modo disinvolto gli indirizzi del protocollo di Kyoto».
Nella Patagonia cilena, un megaprogetto promosso dal consorzio Hydroaisèn, composto dai gruppi di Endesa (ora controllato da Enel) e da Colbùn, è costituito da cinque dighe, due sul fiume Baker e tre sul Pascua. Una linea di 1.600 km che attraverserà 4 parchi nazionali, 8 riserve forestali nazionali, 16 siti prioritari per la conservazione della biodiversità : «Le grandi imprese tengono al profitto, noi teniamo alla vita», dice al manifesto il parlamentare mapuche Jorge Eladio Hueche Catriquir. Hueche denuncia le responsabilità del governo cileno, «i cui uomini siedono nei consigli di amministrazione delle grandi industrie, che hanno la strada spianata per inquinare e sfruttare i nostri territori». Vuole far sentire la sua voce contro le società come Enel, «che addormentano le coscienze con discorsi rassicuranti».
Concepcion Santay, sindaco indigeno maya-ixiles di San Juan Cotzal è venuto a parlare della diga di Palo Viejo, in Guatemala. Un progetto di Enel Green Power, realizzato attraverso la sussidiaria locale Ronovable de Guatemala, che prevede di generare energia elettrica a partire dalla forza idraulica dei fiumi Cotzal, Chipal, Regadio ed Escondido fino a 84 megawatt. L’impianto – spiega il sindaco – «si trova all’interno di una grande piantagione di caffè, proprietà della famiglia Broll, che ha sottratto terra nel corso dei secoli alle comunità indigene e contadine, e in cui si pratica il lavoro minorile». Enel – dice ancora Santay – «non ha consultato le comunità indigene, come prevede la Convenzione 169 dell’Ilo, sottoscritta dal Guatemala».
Una versione confutata dalla società italiana che ribatte punto per punto alle accuse degli ambientalisti, e difende i propri margini di profitto. «La questione principale – ci dice il vescovo guatemalteco Alvaro Ramazzini – è che le comunità indigene chiedono pari rappresentanza, e il 20% sui guadagni come risarcimento diretto. L’azienda, invece, ritiene di compensare attraverso progetti di sviluppo contrattati col governo». Ramazzini è uno dei «testimoni d’onore» eletti dalle associazioni per negoziare con Enel e ieri ha parlato all’assemblea degli azionisti. Con lui, è intervenuto anche Miller Armin Dussan Calderon, presidente di Assoquimbo, che si batte contro la diga di El Quimbo, in Colombia: «Lottiamo – ci ha detto – per il possesso delle nostre risorse, contro il modello neoliberista del governo Santos, che dà mano libera alle multinazionali, aumenta le spese militari, e ricatta le popolazioni».
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