by Editore | 24 Maggio 2012 8:08
«È il momento di mettere le persone prima delle aziende e i diritti prima dei profitti», ha detto Christine Weise, presidente di Amnesty International Italia, presentando ieri a Roma il Rapporto dell’organizzazione per il 2012. I dati presentati dicono che ancora oggi esistono 91 paesi con gravi restrizioni alla libertà d’espressione, maltrattamenti e torture in 101 paesi, condanne a morte eseguite in 21 paesi ed emesse in 63, 18.750 prigionieri nei bracci della morte, 500.000 persone che ogni anno muoiono per atti di violenza. Migranti, nativi, disperati che scappano da guerre e torture, sono al centro dell’osservatorio di Amnesty che ha chiesto con forza al governo italiano una risposta umanitaria ai «respingimenti» – già condannati dalla Corte Europea dei diritti umani con sentenza del 23 febbraio 2012 – e all’Europa una gara di solidarietà che permetta di lasciare aperte le frontiere per dare rifugio a chi scappa. Ma a fronte di un Consiglio di sicurezza sempre più inadeguato, la spinta per un cambiamento rimane, anche per Amnesty, la forza del movimento globale che sta attraversando le strade del mondo: in Medioriente, nel Maghreb, in Cina, Russia, Europa e nelle Americhe, dove le piazze chiedono diritti, libertà , dignità , giustizia sociale e uguaglianza. «Soprattutto nelle Americhe – spiega Weise – la protesta sociale ha preso forza nello scontro con potenti interessi economici e politici, e le violazioni ai danni delle comunità native sono collegate all’aumentato sfruttamento delle risorse, mentre attivisti e giornalisti sono minacciati e uccisi in Brasile, Colombia e Messico». Numerose sono poi le intimidazioni e gli attacchi mortali verso i migranti: «In Messico – spiega Weise – esiste un flusso continuo che dal Centro e Sud America si sposta verso il Nord con treni e pulmann carichi di persone fino al tetto. Le bande sequestrano questa gente e chiamano al telefono i familiari per estorcere denaro mentre torturano le vittime in diretta. Per le donne che cercano di attraversare il confine, i mediatori offrono un pacchetto in cui è compresa l’iniezione contraccettiva perché si dà per scontato che durante il tragitto saranno stuprate». Oltre ai cartelli della droga e alle bande criminali, il Messico riporta diffuse denunce di violazioni anche della polizia e delle forze di sicurezza che, come anche in altre parti del mondo, invece di tutelare producono «condanne arbitrarie, tortura, prove false per l’accusa». Come Rosa Là³pez Dàaz, indigena di lingua tzotzil detenuta nel carcere di San Cristà³bal de las Casas in Chiapas, che ha perso il figlio Natanael per le torture subite in carcere. Arrestata nel 2007 per un reato che ha commesso, è stata condannata a 26 anni di reclusione, e nelle sue lettere racconta: «Mi colpirono allo stomaco e io li avvisai che ero incinta ma loro dissero che non importava e continuarono a colpirmi. Mi misero un pezzo di stoffa bagnata in bocca e una busta di plastica in testa e sentii che mi stavano asfissiando e in quei secondi sentii la morte. Non so per quanto tempo mi torturarono, sentivo solo dolori insopportabili dovuti alla gravidanza. Non potevo vedere la faccia di quelli che mi picchiavano perchè ero bendata e legata. Mi dettero un calcio e caddi a terra, e mi presero per i capelli trascinandomi per 2 o 3 metri, e comincairono a toccarmi in tutte le parti del corpo. Poi mi tolsero i pantaloni e le manette, mi bloccarono togliendomi la camicetta e lasciandomi completamente nuda. Non so quanti erano, sentii solo uno che diceva: “Io sarò il primo”. Pensai che mi avrebbero violentata e allora gridai: Vi prego, vi supplico per l’amor di Dio non mi violentate dirò quello che volete. Così accettai di essere colpevole di un delitto che non ho commesso».
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