Il traditore modello Infame o benedetto un simbolo per tutte le passioni

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Tradire è solo questione di punti di vista? Sì e no. Talora, è anche questione di revolver». La domanda – e la chiosa glaciale che le fa compagnia – sono le note dominanti del saggio di Giulio Giorello, Il tradimento: in politica, in amore e non solo, edito da Longanesi. 
Il tradimento nella sfera amorosa rientra solo in maniera sporadica nei temi del libro, il cui percorso attraversa in generale la pratica di governo, la teologia, la metafisica, l’etica e l’arte. In ciascuno di questi recinti, è determinante la figura del traditore, esposto a diventare un proverbiale modello di protervia. Le varianti che volta per volta egli assume si estendono dalla figura del “fellone” a quella del simulatore o dissimulatore, dell’illusionista, del burattinaio che muove i complici come marionette, del bugiardo o dello spergiuro («Che cos’è un traditore?, ci si domanda in un versetto del Macbeth scespiriano. «Uno che giura e mente», sarà  la risposta). Falso devoto, finto amico e torbido giocatore con le vite altrui, di rado il traditore vede svanire le proprie trame. Al termine della parabola può esserci la consegna ai nemici di una vittima predestinata: in questo senso è Giuda il più classico progenitore della categoria. Ecco che qui l’etimologia interviene a illuminarci: in latino «tradere», da cui «traditore», significa appunto «consegnare», mentre – per dirne solo un’altra – il «sicario», eventuale braccio armato dell’operazione, prende il nome dal pugnale, detto, sempre in latino, «sica». A volte, per rimorso, debolezza o generosità , il traditore si suicida. 
La casistica esibita da Giorello è straripante e a tratti intricata, anche per il generoso spreco di citazioni. Essa si estende da quel Flavio Giuseppe che, in occasione della guerra giudaica del 66 dopo Cristo, passò dalla funzione di ex capo dei ribelli di Israele a quella di collaborazionista dell’impero di Vespasiano. Il volume, com’è naturale, indugia sull’immagine dell’Iscariota, memorabile «cattivo». Passa poi da Bruto e Cassio – gli «impenitenti repubblicani» che fecero di Cesare l’emblema del despota giustiziato, contribuendo ad esaltarne il mito – a quella Guerra delle due Rose che di complotti e tradimento fu un ricettacolo. Si sfiora Catilina, s’insegue nelle terzine dantesche il conte Ugolino della Gherardesca, passato dal partito ghibellino al guelfo, e questa fu certo la minore delle nefandezze che gli costarono una condanna tramandata nei secoli. Si fanno poi i conti con Rodrigo Borgia, divenuto papa Alessandro VI, e con il suo rampollo Cesare, detto il Valentino.
Eccoci qui giunti in pieno terreno machiavelliano. Mentre nell’Inferno dantesco in termini di tradimento si «giudica e manda» – e delle gesta esecrabili dei traditori risuonano i quattro cerchi della palude di Cocito – qui, al cospetto di Machiavelli, ciò che Giorello chiama «il nostro cammino per i sentieri del tradimento» conosce svolte imbarazzanti o, a seconda degli umori, luminose. È inevitabile accorgersi – non per l’autore di questo libro, che certo già  lo sapeva, ma per eventuali lettori meno esperti – che l’autore del Principe si adoprerà  a spogliare il tradimento delle vesti turpi e catastrofiche che gli ha cucito addosso una tradizione già  ai suoi tempi inveterata. Almeno per chi voglia esaminarne l’essenza in chiave politica, quel presunto peccato non regge al vaglio della ragione. Se la fedeltà  è un valore, è il caso di accogliere l’idea (così Giorello riassume la questione) «che la politica nulla abbia a che fare con quelli che chiamiamo valori». Così ragionando, il Segretario fiorentino ho rotto i ponti «con teologi ossessionati da Dio e con umanisti esaltati dalla “dignità ” dei discendenti di Adamo». D’ora in poi, il tradimento si vedrà  «legittimato». Al punto, scrive Giorello, «che possiamo sospettare che pensare fuori dal tradimento equivalga a pensare fuori dalla politica». 
Abbiamo visto, echeggiati dall’autore, sant’Agostino, Giovanni Calvino, Joseph Ratzinger e perfino (con un suo taglio intelligente e paradossale) José Saramago misurarsi per iscritto su Cristo e su Giuda. Si è tentato più avanti di spiegarci come e perché Stalin, despota d’un paese dominato dall’ossessione del tradimento, ne avrebbe ordito a sua volta uno per liberarsi di Sergej Kirov, suo amico e seguace. Abbiamo visto mettere in scena un confronto tra lo stesso Stalin e Jago, sulla scorta, fra l’altro, di una pagina di Giorgio Manganelli. Lì lo scrittore cercò di ricostruire «il senso del letale labirinto» nel quale si aggiravano i loro sospetti, scrutando con ironia il repertorio dell’uno e dell’altro, attraverso «gli amori, le menzogne, le calunnie lavorate con perizia, con onestà , da umile artigiano; le feroci morti, infami o infamanti». Si racconta inoltre, in queste pagine di Giorello, la storia di quell’Adolfo Suà¡rez, che, dopo essere stato per lunghi anni seguace di Francisco Franco, sarebbe diventato senza esitare primo ministro della Spagna «liberale» che gli subentrò al potere. Ma proprio la presenza di Suà¡rez fu poi determinante nello sventare il tentativo di congiura militare ordita nel 1981 da Antonio Tejero, un tenente colonnello della Guardia Civil nostalgico del Caudillo. 
In tal modo, ciò che l’autore chiama «il buon uso del tradimento» emergerà , a lettura ultimata, come una risorsa di libertà , come «la leva che può scardinare il conformismo della servitù volontaria». Di questi sforzi, perfino mentre scriviamo, ci capita di registrare vari esempi. Non che tutti i tradimenti riescano, o portino vantaggio ai loro autori. Ma a volte, grazie alla misteriosa perfezione del Caso, il prodigio può avverarsi.


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