by Sergio Segio | 27 Maggio 2012 13:30
ROMA Chissà se Mario Monti riuscirà a convincere gli italiani che l’evasione fiscale è – in fondo – il loro nemico principale. Perché ammazza la concorrenza, perché spiazza le imprese generando inefficienza, perché crea ineguaglianza tra le persone anche per quanto riguarda il godimento di certi servizi sociali. Perché l’evasione fiscale impoverisce molti arricchendo pochi. E tecnicamente deruba ogni giorno che passa tutti i contribuenti (forzatamente, o volontariamente) onesti. Sarà dalla metà degli anni ’80 che in tanti ci hanno provato a spiegare questi semplici concetti, a far capire che quello che funziona – pagare le tasse correttamente – in mezzo mondo e in quasi tutta Europa potrebbe e dovrebbe funzionare anche in Italia. Altrettanti protagonista della politica – basti ricordare le celebri battute di Silvio Berlusconi, o le teorizzazioni di Giulio Tremonti, prima che si scoprisse antimercatista e rigorista in finanza pubblica hanno preferito cavalcare certe pulsioni profonde di un popolo come il nostro, che considera lo Stato un nemico e le tasse un’estorsione.
Il problema è che forse, stavolta, la tragica situazione in cui versano i conti pubblici potrebbe aiutare a sconfiggere certe resistenze e certe timidezze. Tra la necessità di finanziare il mostruoso debito pubblico e i vincoli imposti dall’Europa che stanno schiantando l’economia italiana, ormai spazi per aumentare le tasse su chi le paga puntualmente non ce ne sono davvero più. Ma si può e si deve prendere riducendo la «torta» dell’evasione fiscale.
Una torta davvero gigantesca. Secondo i dati dell’Istat – il «Rapporto del gruppo di lavoro sull’economia non osservata» – nel 2008 la parte fiscalmente sommersa dell’economia, lavoro nero compreso, valeva addirittura 255-275 miliardi. Parliamo di un ammontare che sta tra il 16,3 e il 17,5% del Prodotto interno lordo. Le cose non vanno allo stesso modo in tutti i settori: l’incidenza è «solo» del 12% nell’industria, del 21% nei servizi e nella finanza, del 30% in agricoltura, del 50 per cento addirittura nel turismo. Un flusso di ricchezza su cui non viene pagato un euro di tasse o contributi. Se, ipoteticamente, si riuscisse a percepire il 10% di imposte su questo reddito, ogni anno entrerebbero nelle casse dello Stato 27 miliardi di euro. Una supermanovra extra annuale; oppure, una riduzione del prelievo di ammontare analogo per i cittadini.
Risorse, spiegano gli esperti, che naturalmente non si possono ricercare se non «mungendo» la mucca dell’evasione in modo graduale e opportuno. A meno di voler mettere in ginocchio la miriade di operatori economici e di settori che prosperano evadendo le tasse. Ma la strada è obbligata, se non si vuole accettare una realtà – rivelata da un’inchiesta del «Sole24Ore» – secondo cui nel 2009 gli italiani hanno dichiarato al fisco redditi per 783,2 miliardi, ma hanno effettuato acquisti per 918,6 miliardi. In pratica, ogni 100 euro registrati nel modello Unico e nel 730, ne sono stati spesi 117, con punte vicine a 140 in Calabria e Sicilia. Regioni, quelle meridionali, dove secondo alcuni studi il livello di propensione all’evasione è decisamente più elevato rispetto al centro-nord del paese. Studi che però non tengono conto dell’evasione «legale» effettuata dalle società grandi o piccole, ovviamente molto più diffuse nelle aree più ricche e produttive del paese.
Quale sia il messaggio «positivo», e non solo «repressivo», da veicolare lo mostrano i conti del Centro Studi di Confindustria. La pressione fiscale «ufficiale» – la percentuale di ricchezza che finisce in tasse e contributi in rapporto al prodotto interno lordo – è del 43,2%. E tiene conto anche parzialmente del sommerso. La pressione fiscale effettiva sui contribuenti che pagano integralmente le imposte è invece pari al 51,4% del Pil. Si può continuare così?
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