by Editore | 14 Maggio 2012 7:44
Da sette anni padre George Luis è il parroco della chiesa di San Michele nella cittadina di Qara, nel deserto siriano a nord di Damasco. Come sempre, quando qualcuno bussa alla sua porta, Padre George apre, senza pensarci un attimo. Così ha fatto venerdì scorso, all’alba. Non immaginava, racconta al telefono al Corriere della Sera, di trovarsi davanti due uomini armati di pistole, col volto coperto ad eccezione degli occhi. «Sono entrati dentro. Uno era barbuto, l’altro, più giovane, in T-shirt. Hanno detto “Vogliamo tutto quello che hai. Obbedisci e non ti faremo del male”. Ho cercato di scappare, e mi hanno colpito alla testa con una bottiglia, facendo uscire molto sangue. Mi hanno legato le mani. Hanno preso 65 mila lire siriane, 30 dollari, il mio portatile e il cellulare». Padre George, 39 anni, appartiene alla chiesa cattolica greco-melchita, e parla l’italiano — l’ha imparato a Roma, dove ha studiato per quattro anni e dove si reca spesso perché vicino al movimento dei Focolari. «Poi mi hanno legato nel bagno, e mi hanno colpito di nuovo alla nuca, dicendo: “Gioisci, cristiano, la ferita è a forma di croce. Vediamo che farà Cristo per te”».
La storia di padre George è un esempio dell’insicurezza dei cristiani in Siria. Mentre gli scontri tra esercito e oppositori armati continuano, le comunità che una volta vivevano in pace rischiano di ritrovarsi su fronti opposti, in un Paese che scivola nel baratro della guerra civile. I cristiani sono per lo più dalla parte di Assad, che appartiene alla minoranza alawita. Non che non si incontrino, nella comunità , voci critiche nei confronti del governo, ma prevale il timore che l’alternativa al regime sia «una dittatura religiosa islamista», per usare le parole di padre George.
Il parroco non accusa l’intera opposizione. Dice che alcuni dei ribelli che controllano il villaggio di Qara e le strade d’accesso sono andati a trovarlo dopo l’attacco. «Erano dispiaciuti. “Come sono potuti entrare…”, dicevano tra loro. “Forse c’è qualcuno tra noi, degli infiltrati che fanno queste cose…”». È dei jihadisti stranieri che padre George ha paura. Il movimento di opposizione ad Assad è decentrato, sempre più militarizzato ed è composito. Il regime, accusato dall’Onu di aver ucciso nella repressione 9.000 persone, punta sempre il dito contro i terroristi. Ma gli stessi governi occidentali ostili ad Assad temono che la rivolta contro la dittatura sia stata «infiltrata» da jihadisti, seppure in minoranza.
Il patriarca greco melchita di Antiochia, Gregoire III Laham, si dice più preoccupato per il diffondersi delle armi e del «banditismo che regna e approfitta della situazione di caos». «Non ho paura dei musulmani, dell’islamismo, del salafismo — ha detto dopo l’aggressione del curato —. Ma davanti al banditismo non ho mezzi di difesa».
Padre George denuncia anche le liste nere. Più a nord, nel villaggio di Qusayr, «ci sono 200 nostri ragazzi nella lista nera dell’opposizione: rischiano d’essere uccisi perché considerati fedeli al regime. C’è un ragazzo, Andrea Arbache, che è stato preso solo perché suo fratello ha parlato con un canale di Stato, Addounia. Da mesi la famiglia non sa dove sia, forse è morto». Anche i morti sono contesi nella battaglia tra regime e ribelli. «Un altro prete è stato ucciso ad Hama a gennaio», ricorda padre George. I due fronti sono d’accordo sul fatto che Basilious Nasser, sacerdote greco-ortodosso, stesse soccorrendo un ferito durante scontri tra esercito e ribelli. Ma mentre l’agenzia di Stato ha incolpato «terroristi armati», l’opposizione ha additato un cecchino del regime — e accusa Assad di soffiare sulle divisioni religiose per mantenere il potere.
Dopo essere riuscito a liberarsi ed essersi fatto medicare (5 punti di sutura e un dente rotto), Padre George ha raccontato l’attacco subìto. «E ti dico una cosa: sono venuti tanti musulmani a vedermi, a consolarmi. A Qara noi cristiani siamo 250 e i musulmani 23 mila. Ogni piccolo gruppo si sente debole. Ma nei nostri rapporti con gli altri non c’erano problemi, c’era rispetto reciproco. Oggi il mio messaggio resta questo: noi dobbiamo essere in pace con i musulmani».
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