Il manifesto dell’italiano per donne

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Non più «la paternità » del progetto, ma la «titolarità » o – perché no? – «la maternità ». E, se i sostantivi in maggioranza sono femminili, il participio ne deve tenere conto. Carla, Maria e Giorgio sono arrivate, non arrivati, come ci impone la grammatica imparata a scuola. E perché «governante» (nell’accezione di lavoro domestico) si declina al femminile e nelle professioni più alte – «medico», «architetto», «primario», «chirurgo» – prevale il maschile? «Le parole sono importanti, e da qui comincia la battaglia per un reale superamento delle diseguaglianze», si legge in un appello promosso da numerose studiose e associazioni femminili. 
«Ciò che non si dice non esiste» è lo slogan con cui anche in Italia si dà  battaglia per un uso non sessista della lingua italiana. La figura di riferimento continua a essere quella di Alma Sabatini, l’anglista che per prima analizzò le disparità  di genere della nostra struttura grammaticale, producendo alla fine degli anni Ottanta il testo che è considerato ancora la pietra miliare, ossia Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, da cui sono tratti gli esempi citati in apertura. E a La lingua dell’Alma e alle sue linee guida sarà  dedicato domani a Roma, alla Casa internazionale delle donne, un grande convegno su iniziativa di Archivia, l’associazione che conserva il fondo Sabatini e ha tra i suoi compiti la diffusione di un italiano meno maschilista. La studiosa sarà  raccontata anche da un documentario, a cura di Laura Valle.
Dalla Francia alla Spagna e da tempo anche in Italia, ormai ovunque le donne contestano la struttura grammaticale della lingua. Ma i tentativi di cambiamento continuano a incontrare forti resistenze. Anche in Italia non mancano riserve. Dal coordinamento delle commissioni «pari opportunità » è stato rivolto un appello alla ministra Fornero e al ministro Profumo «perché si impegnino a diffondere un linguaggio rispettoso delle differenze di genere», ma finora non è arrivata una risposta. Troppi gli impegni su altri fronti. «L’urgenza della crisi economica», dice Gabriella Nisticò (responsabile di Archivia, che firma l’appello insieme alla Casa internazionale delle donne), «non dovrebbe far passare in secondo piano problemi come questo. E bisognerebbe ricominciare a parlare di parità , abbattendo gli stereotipi linguistici che hanno reso invisibili le donne». L’Italia è ancora al 74° posto nella classifica mondiale del gender gap, come rileva Giuliana Giusti, una delle protagoniste nella rete delle pari opportunità . Molte donne di potere – secondo la studiosa dell’Università  Ca’ Foscari – ancora rifiutano, forse inconsapevolmente, il ruolo declinato al femminile. L’appello alle istituzioni è di promuovere l’uso di termini come «ministra», «direttrice», «sindaca», «assessora», «consigliera», «magistrata», affinché entrino nell’uso comune, e non appaiono come deformazioni caricaturali. «Così le nuove generazioni», si legge nel documento, «assumerebbero come naturale che nella storia ci siano due soggetti di valore equivalente, il femminile e il maschile». Basta la lingua per ottenere questo? Secondo le firmatarie, è un primo e necessario passo.


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