Il diario di Bin Laden: sogno di uccidere Obama
Regnava ormai su un impero della solitudine, non più “sceicco del terrore”, come l’Occidente spaventato definiva Osama Bin Laden, ma sovrano di un fallimento osceno. Lo raccontano i frammenti di diari e di messaggi che sono stati trovati nel miserabile fortino di Abbottabad in Pakistan. È lì che Bin Laden fu raggiunto dai commandos della UN Navy. Quelle pagine e quei messaggi che oggi il Pentagono ha diffuso con il contagocce nell’anniversario dell’esecuzione, raccontano il tramonto di un uomo chiuso nel bozzolo dell’odio che ancora lo tiene vivo, ma del quale ormai è più prigioniero che padrone.
Non va bene, state rovinando tutto, «non sapete conquistarvi il sostegno del popolo», uccidete troppe vittime sbagliate – come se ci fossero state le vittime giuste – predicava sempre più querulo, un vecchio brontolone da camposanto, a seguaci che non lo seguivano, alle bande di assassini che in Somalia, in Africa, in Asia, negli Stati Uniti si fregiavano del marchio di Al Qaeda, come fosse il “brand” di una multinazionale. Ma di fatto agivano tutti come free-lance, come precari della violenza.
Non sono molti i frammenti pubblicati dai servizi americani dell’antiterrorismo, poche frase sulle almeno 175 pagine arraffate dai Seals, dagli incursori della Marina, nei momenti convulsi dell’assalto, della sparatoria e dell’uccisione. Dunque è necessario leggerli con prudenza, perché gli specialisti delle “Psy-Ops”, delle operazioni di propaganda e di guerra psicologica sono certamente al lavoro, ma il sentimento della “missione incompiuta”, del fallimento del grande progetto di attacco e di assedio all’Occidente culminato con l’11 settembre pervade gli ultimi giorni dell’ingegnere divenuto distruttore.
Come tutti i leader del fanatismo, che si tratti di allucinazioni mistiche o ideologiche, anche Bin Laden vive la maledizione classica dell’estremismo ancora più estremo, del frazionismo, del fanatismo più fanatico, che alla fine aliena quel mitico “popolo” che dovrebbe unificare e sollevare. Si scandalizza per la ferocia e la brutalità del gruppo di Al Shabab in Somalia ai quali rimprovera di infliggere punizioni corporali troppo severe anche ai “fratelli musulmani”, come «tagliare le mani ai ladri», che orrore lui dell’11 settembre. S’infuria contro gli yemeniti dell’Aqap, che pure vantano la propria affiliazione ad Al Quaeda e con il loro profeta, perché «perdono tempo ed energie per abbattere il governo, anziché concentrarsi contro l’America».
Perché è l’America resta la sua ossessione, il suo incubo, il suo sogno. Progetta l’impossibile, un attentato per uccidere Barack Obama, verso il quale sembra nutrire implicitamente qualche rispettoso timore dopo la vittoria nel 2008, e vedere assurgere al trono americano il vice Biden che lui considera, non essendo per altro il solo, «un totale incompetente e inetto». Disegna possibili piani per uccidere i generaloni a quattro stelle che si succedono alla guida della “Guerra al Terrore”, prima fra tutti il temibilissimo generale David Petreus. Ma tutto rimane sempre allo stadio dei progetti e delle fantasticherie rimpastati nella betoniera mentale della sua solitudine nel compound pakistano, fra il 2006 e il 2011, gli anni ai quali risalgono questi documenti.
Odia gli iraniani, mortali avversari di fede, Shia nemici dei suoi Sunni wahabiti, e altri brandelli di lettere e comunicazione inviate da suoi amici e collaboratori denunciano i trattamento insieme «crudele e bizantino» – curiosa espressione questa ripresa all’ultimo brandello di romanità demolita proprio dall’Islam – delle autorità di Teheran. Gli iraniani trattano e poi ritrattano la liberazione dei Taliban e dei jihadisti scappati oltre frontiera all’arrivo degli americani e delle truppe Nato, sono venali, corruttibili ma infidi e i pochi liberati e restituiti all’Afghanistan o al Pakistan sembrano avere molta sfortuna: poco dopo il rilascio finiscono maciullati dai missili lanciati dai droni, dagli aerei americani senza pilota, che pare ne conoscano sempre l’indirizzo.
Si preoccupa dei bambini, non perché sia una Montessori del Kandahar, ma perché «i bambini sono pericolosissimi», parlano, vanno dappertutto, giocano con altri bambini senza chiedere informazioni e possono diventare le briciole di Pollicino che conducono i cacciatori di terroristi fino ai loro genitori. «Teneteli sempre dentro casa – raccomanda – e fateli sempre uscire accompagnati, soltanto per emergenze mediche».
S’infuria con il solitario che tenta di far saltare Times Square a Manhattan con un’autobomba e agisce per conto proprio, senza consultare, senza pianificare con la stessa cura maniacale e ingegneristica per i dettagli che fu messa nell’operazione Torri Gemelle, della quale disse, con un punta quasi di rammarico da progettista sorpreso, che «era andata anche molto al di là di quello che avevo progettato e sperato». Come un “Ceo”, il presidente di una grande multinazionale, un Jobs del massacro, un Ford del terrore da assemblaggio, si angoscia per i danni al “marchio” che gli straccioni e i dilettanti della guerra santa producono con la loro cialtronaggine. «Dobbiamo tornare alla purezza e alla chiarezza della nostra missione nel nome di Allah il misericordioso» invoca, ma gli altri non lo ascolano. Sente, insieme con la vita che gli sfugge sotto la coperta che lo avvolge come un vecchio clochard, che il sogno della grande insurrezione globale contro i pagani, gli infedeli, i demoni, i blasfemi, si sta spappolando in una palude di sangue dove «troppi nostri fratelli cadono per mano di altri fratelli», scrive. La jihad sta diventano una guerra fratricida, dove nessuno controlla più niente, neppure quei servizi segreti pakistani dei quali parla bene, e a ragione, visto l’antico doppio o triplo gioco che essi conducono da sempre sotto il naso degli americani. Ma non osa criticarli troppo, perché sa che da loro, dipende ormai non più il “regno del terrore”, ma la sua stessa vita e quella degli ultimi fedeli e mogli nella Sant’Elena di Abbottabad. La morte, un anno fa, dovette arrivare come una liberazione.
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