Il crollo dell’ultimo muro della memoria
Fu infatti nei pressi di quel luogo, alle malghe di Porzà»s, che nel febbraio 1945 un centinaio di partigiani comunisti uccise una ventina di partigiani di orientamento diverso, cattolico e azionista, appartenenti alle formazioni Osoppo. Si trattò del più grave scontro interno alla Resistenza italiana, destinato da allora in poi ad alimentare infinite polemiche. Ancora negli anni 90 il regista Renzo Martinelli, dopo il rifiuto di molti sindaci della zona a concedergli i necessari permessi, fu costretto a girare in Abruzzo il suo film «Porzà»s». La stessa storiografia ha spesso evitato di ricostruire la dinamica e le cause dell’eccidio: nel libro «Una guerra civile», l’opera assai nota che Claudio Pavone dedicò alla Resistenza venti anni fa, ci si limitava a un cenno, del tutto eccentrico, in nota. La ragione principale, quella che agli occhi di molti ha reso l’eccidio di Porzà»s un vero e proprio tabù storiografico, ha a che fare con la difficoltà o l’imbarazzo di riconoscere che, sul confine orientale, la politica del Pci aveva sostanzialmente accettato la strategia di Tito che puntava ad annettere il territorio italiano fino all’Isonzo. Non a caso in quella zona le formazioni garibaldine, cioè comuniste, erano passate alle dipendenze dell’esercito di liberazione sloveno. E i comunisti giuliani non solo erano usciti dal Cln di Trieste ma avevano scatenato contro quest’ultimo, cioè contro gli antifascisti non comunisti, una violenta campagna diffamatoria (ad esempio accusandone i componenti di «collaborazionismo») in accordo con il Partito comunista sloveno.
Come ha di recente scritto uno storico, Raoul Pupo (nel volume «Porzà»s», a cura di T. Piffer, Il Mulino), nel Friuli e nella Venezia Giulia «accadde quel che successe non nel resto d’Italia, ma nel resto della Jugoslavia»: vale a dire che quegli italiani che, come i partigiani della Osoppo, combattevano i tedeschi ma cercavano anche di difendere l’integrità territoriale del loro Paese vennero considerati da Tito come un ostacolo per i propri obiettivi, dunque come «nemici del popolo» da eliminare. L’eccidio di Porzà»s non fu dunque il frutto di una generica rivalità tra formazioni diverse, ma si legava appunto alla logica terribile di uno scontro tra quanti accettavano la strategia jugoslava volta al controllo della Venezia Giulia e del Friuli orientale e quanti vi si opponevano. Tra questi ultimi vi furono anche dei militanti comunisti i quali non accettavano che, nella lotta partigiana, la difesa dell’integrità nazionale italiana dovesse essere sacrificata alla solidarietà ideologica con gli jugoslavi.
Ancora oggi, soprattutto a livello locale, c’è chi non riesce a inquadrare nel suo vero contesto la matrice dell’eccidio di Porzà»s, restando abbarbicato a una memoria conservatrice e nostalgica, troppo spesso caratteristica di un Paese che fatica a lasciarsi alle spalle i conflitti del passato. Ma certamente le cose sono molto cambiate rispetto a qualche tempo fa: nel 2001, ad esempio, l’ex commissario politico garibaldino Giovanni Padoan, incontrandosi con il cappellano delle formazioni Osoppo, don Redento Bello, definì l’eccidio «un crimine di guerra che esclude ogni giustificazione». La visita del presidente Napolitano, che scoprirà una lapide in ricordo delle vittime di Porzà»s e del loro «sacrificio per la libertà del Friuli e dell’Italia intera», sta a significare come anche quell’episodio tragico faccia ormai parte pienamente della memoria dell’Italia democratica.
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